Recensione Time out of Mind (2014)

Il film, grazie ad uno stile essenziale scelto dal regista Oren Moverman e dal protagonista Richard Gere, realizza, fotogramma dopo fotogramma, il ritratto allo stesso tempo universale e particolare del disagio e dell'annullamento.

L'ambizione più grande per l'immagine è dare luce all'invisibile. O meglio, mostrare l'essenza dell'invisibilità. Certo, a prima vista questi due elementi sembrano essere discordanti per natura e funzione ma, se si parla di una trasparenza sociale, il discorso si fa sicuramente diverso. Il che vuol dire che, pur se non semplice, l'impresa è possibile. Nel raccontare gli ultimi, quelli che si trovano ai margini di qualsiasi organizzazione o appartenenza, però ha i suoi trabocchetti in cui molto cinema è caduto, più o meno ingenuamente. Primo tra tutti, e forse il più pericoloso per una risultato finale realistico e apprezzabile, è sicuramente l'indulgenza nei confronti del pietismo che, lontano dal creare accondiscendenza e comprensione nel pubblico, spesso produce una reazione di allontanamento e fastidio.

Un rischio, questo, che Time Out of Mind, grazie ad uno stile essenziale scelto dal regista Oren Moverman e dal protagonista Richard Gere, realizza, fotogramma dopo fotogramma, il ritratto allo stesso tempo universale e particolare del disagio e dell'annullamento. Il soggetto preso in considerazione è George, un uomo che, per varie e mai troppo precisate situazioni, piano piano è scivolato nella condizione di homeless. Dalle giornate trascorse a spiare una figlia a lungo trascurata fino ai ricoveri per senza tetto di New York, l'uomo incontra una umanità dispersa in cui la consapevolezza di se stessi e della propria vita ha lasciato spazio ad una perenne assenza di tempo e di spazio. Perché questi uomini, alla fine di tutto, non appartengono a nessuno, tanto meno a se stessi.

Il corpo dell'attore

Time Out of Mind: Richard Gere in una scena del film nei panni del senzatetto George
Time Out of Mind: Richard Gere in una scena del film nei panni del senzatetto George

Abituati da sempre alla sua naturale eleganza e a quell'espressione consapevole che lo accompagna da molto anni, si rimane obiettivamente sconvolti di fronte ad un Richard Gere da strada. Ad essere onesti, il regista non lo "sporca" profondamente dal punto di vista fisico, ma lascia che l'andamento del corpo e la sua esposizione racconti una condizione di costante degrado. Per ottenere questo, però, Gere si denuda completamente dei suoi personaggi precedenti, rinunciando perfino a se stesso e alla sua immagine. Così, mette in atto l'inganno più elettrizzante e pericoloso per un attore, ossia utilizzare la propria persona fisica come uno strumento comunicativo, forgiandolo e piegandolo agli impulsi e alle necessità di un personaggio fino a quel momento estraneo. Perché il mestiere dell'interprete richiede delle naturali doti di mistificazione, ma anche una generosità sensibile con cui mettersi al servizio di voci diverse dalla propria. E Gere, non solo riesce nell'intento di ascoltare e fare propri i pensieri interni di George, ma incarna il fallimento stesso, unico elemento magico che può rendere un uomo invisibile ai suoi simili quasi per timore di contagiare la sua evidente decadenza.

Spiando gli ultimi

Richard Gere in una scena di Time Out of Mind
Richard Gere in una scena di Time Out of Mind

Moverman ha dimostrato con questo film che non sempre il teorema della drammaticità visiva più spinta deve essere necessariamente applicata al cinema. Certo, l'utilizzo di uno stile ridondante fa sentire in un primo momento più sicuri, ma nella realizzazione finale potrebbe portare ad una pericolosa dispersione delle emozioni e del punto focale dell'intera vicenda. Per questo motivo il regista ha scelto di focalizzare la propria attenzione esclusivamente sul personaggio e sulla sua interazione con la realtà. In questo modo è come se avesse scelto di tratteggiare due universi che, pur trovandosi paralleli e quasi sovrapposti, sembrano far parte di dimensioni separate. Ma oltre a focalizzare il suo punto di vista, il regista lo mette in atto utilizzando uno stile registico quasi riservato con cui "spiare" i passi di George da angolazioni invisibili. In questo modo riesce ad essere presente nella messa in scena di questa vicenda senza intromettersi o imporre una presenza ossessiva. Anzi, nascosto dietro finestre o angoli di una palazzo Moverman "abbandona" il suo protagonista nel mezzo della strada lasciando che la vita intorno a lui avvenga. Il suo compito è di osservare e riprendere questo scorrere di emozioni naturali che, in qualche modo, potrebbe somigliare perfino ad un esperimento sociologico. A salvare il film dalla freddezza di uno studio analitico, però, è proprio la realtà che si mostra in tutte le sue contraddizioni e che, non riconoscendo mai sotto gli abiti di George la personalità di Richard Gere, rivela la natura spesso poco compassionevole di un luogo come New York, che nell'invisibilità vede quasi un vero e proprio affronto da punire.

Conclusioni

Intenso, emozionante e coinvolgente senza cadere mai nelle trappole dell'enfasi. In questo modo Time out of Mind è un viaggio nel mondo degli invisibili che solleva molti interrogativi sulla nostra condizione di uomini senza concedere risposte.

Movieplayer.it

3.5/5