Recensione Parkland (2013)

Il film di Peter Landesman, giornalista al suo esordio dietro la macchina da presa, è un racconto corale che si propone di indagare l'impatto di un evento drammatico, come l'omicidio Kennedy, su alcuni personaggi che rimasero dietro le quinte degli eventi.

Dietro le quinte della storia

L'omicidio Kennedy, a ormai 50 anni di distanza, resta uno dei punti di snodo, indiscussi, della storia americana. Difficile pensare a un evento che abbia avuto un uguale impatto sull'immaginario pubblico statunitense (con l'unica eccezione, scontata, dell'11 settembre); altrettanto difficile pensare a un delitto politico che sia stato, nel corso dei decenni, oggetto di altrettante congetture, illazioni e speculazioni, ma anche di giustificati dubbi. Proprio tali dubbi e congetture restano (volutamente) fuori da Parkland, ultimo film, in ordine di tempo, ad occuparsi dell'argomento: la pellicola, ispirata al romanzo Reclaiming History di Vincent Bugliosi, sceglie piuttosto di concentrarsi sul racconto imparziale dei fatti, e sull'impatto che essi ebbero sulla vita privata di alcune persone, poco note, che ne restarono coinvolte. Tra queste, il principale è il giovane medico Jim Carrico (che nel film ha il volto di Zac Efron) che si trovò sul tavolo operatorio, poco prima del loro decesso, tanto il presidente quanto il suo attentatore Lee Harvey Oswald; e poi il fratello e la madre di quest'ultimo, l'uno severo accusatore del suo familiare, l'altra convinta della innocenza e della sua fedeltà al suo paese; gli agenti dell'FBI (con i volti di Billy Bob Thornton e Tom Welling) che erano sulle tracce di Oswald poco prima dell'attentato; il sarto Abraham Zapruder (interpretato da Paul Giamatti) autore del famoso filmato che documentò l'omicidio. A dirigere questo racconto corale, Peter Landesman, giornalista finora noto soprattutto per aver originato, con un suo articolo, il dramma Trade, dedicato alla tratta delle schiave, e qui al suo esordio dietro la macchina da presa.

L'idea alla base di Parkland, malgrado l'usura (altro termine non riusciamo a trovarlo) del suo argomento, presentava sulla carta più di un motivo di interesse; il punto di vista delle personalità meno note, in un evento che ebbe risonanza mondiale, nonché l'impatto di esso sulle loro vite, è un aspetto che un racconto cinematografico può teoricamente valorizzare al meglio. Tuttavia il film di Landesman, pur girato in modo corretto e senza macroscopici difetti di scrittura o messa in scena, non riesce sostanzialmente a colpire nel segno. Il problema, probabilmente, sta nel carattere eccessivamente corale della narrazione, nonché (per una volta) nella durata limitata (92 minuti): queste due scelte, intuitivamente incompatibili tra loro, fanno in modo che la sceneggiatura non riesca a mettere a fuoco realmente nessuna delle storie presentate. Il giovane medico interpretato da Efron, il cui spazio nella storia si rivela più ridotto di quanto sarebbe stato lecito attendersi, è inoltre penalizzato da una recitazione legnosa e piuttosto monocorde; Giamatti, Thornton e Welling forniscono peso e spessore, come possono, a caratteri sommariamente delineati, mentre un attore come Jackie Earle Haley viene malamente sprecato in un ruolo marginale (il prete che conferì l'estrema unzione a Kennedy).
Il limite principale di Parkland, tuttavia, non sta tanto nella gestione di una singola sottotrama o nell'utilizzo più o meno funzionale di un interprete: quello che si deve rilevare è piuttosto la mancata emersione del clima di quegli anni, il limitato approfondimento della consapevolezza, da parte di tutti i personaggi, di essere protagonisti di un evento che segnerà a fondo la storia americana. Se è vero che lo script sceglie (ed è giusto) di lavorare sul privato, ciò che comunque non può essere cancellato è il carattere pubblico del tema, la sua ricaduta sui destini di un'intera collettività. La parte che funziona narrativamente meglio, probabilmente, è quella legata al personaggio di Oswald e ai suoi rapporti familiari: la figura del fratello dell'attentatore, in particolare, si rivela interessante e riuscita, così come l'enigmatica figura della madre dei due, con le sue singolari tesi, ripetute ossessivamente, sulla presunta attività di spia del figlio. La messa in scena si rivela piuttosto piana, corretta nel seguire il progredire della narrazione quanto anonima nella sua fattura. Verrebbe da dire che il linguaggio adottato da Landesman è televisivo, più che cinematografico, se non fosse per l'enorme evoluzione che la stessa fiction televisiva ha subito (almeno) negli ultimi dieci anni; arrivando a superare spesso il cinema per estetica e libertà creativa. Qui, pare piuttosto di essere di fronte a un episodio di una media serie tv americana risalente, forse, a un ventennio fa. Si lascia seguire e (se si si ha un minimo di interesse per la materia) probabilmente non annoia, ma il tema, e le sue ancora attuali implicazioni, avrebbero meritato ben altro trattamento.

Movieplayer.it

3.0/5