Recensione Party Monster (2003)

Il film si configura come un interessante documento sull'affermazione di una nuova identità ludica e sul nuovo costume glamour generato dagli anni '80 nei locali più di tendenza di New York.

Noi non facciamo, noi esistiamo: siamo negli anni 80

"Noi non facciamo, noi esistiamo" recita il bizzarro protagonista che nella sua ammessa superficialità pare aver profondamente ed inconsapevolmente intuito le derive più estreme della società dell'immagine, le sue contraddizioni più profonde, analizzate nel film diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato che ha aperto l'ultimo festival del cinema a tematiche omosessuali, in corso a Torino nella settimana di uscita del film nelle sale.
Presa d'atto del superamento dei confini sessuali, dell'estetica del narcisismo, del culto dell'esteriorità, dell'apologia della tossicodipendenza e della cultura dell'eccesso e dello shock: questo è Party monster, pellicola a tinte documentaristiche sulla stravagante vita di James St. James (star delle discoteche, interpretato da Seth Green) e di Michael Alig (Macaulay Culkin), la cui ascesa a uomo guida ed inventore dei Club Kids e successiva caduta nella tossicodipendenza più nera è il tema del film. Due individui così eccessivi e vanitosi da combattersi anche il ruolo di star del plot, in un continuo ammiccamento allo spettatore sul chi sia il protagonista della storia. Qualcosa di certo però c'è: la strada dell'eccesso non conduce al palazzo della saggezza ma a quello dell'autodistruzione.

I due cineasti avevano già affrontato il tema, realizzando nel 1998 un corto che vinse il Sundance del '98; questo film ne è la naturale estensione nel vortice dell'eccesso, dei costumi sgargianti, dei comportamenti sopra le righe, del glamour. La pedissequa riproposizione delle estreme avventure dei nostri alla lunga rischia di annoiare e di assumere le parvenze della macchietta infinita, soprattutto nella voluta eccessività con cui viene rappresentato lo stereotipo dell'omosessuale più svampito. Eppure non siamo di fronte ad un film mediocre, anzi. Progressivamente la pellicola prende quota e seppur tra alti e bassi, si dimostra abile specie nel mostrare il tunnel delle droghe e il nichilista percorso dei due protagonista, oltre alla delirante influenzabilità delle loro idee.

Il film, in definitiva, nonostante per tematiche e forma sia probabilmente condannato ad una fruibilità limitata, si configura come un interessante documento sull'affermazione di una nuova identità ludica e sul nuovo costume glamour generato dagli anni '80 nei locali più di tendenza di New York. Un documento perché l'unica ambizione che lo muove è quella di illustrare un periodo, riuscendo nell'intento di non fornire nessuna chiave di interpretazione o presa di posizione moralistica. Il sufficiente distacco e l'ironia con cui vengono trattati i protagonisti, permette alla pellicola di non sviluppare nessuna particolar empatia per loro, ma solo di seguirne le colorate avventure.