Recensione Alamo - Gli ultimi eroi (2004)

Un evento fondamentale per la storia degli Stati Uniti, nel racconto di un regista che vuole emozionare, correndo sul pericoloso filo della retorica.

Mito di ieri, ideali di oggi

La filosofia dell'eroe ha pervaso il cinema, in particolare modo negli anni d'oro di Hollywood, espressione in immagini dell'uomo che conquista, terre, cieli, mari.
Recentemente la cinematografia statunitense ha intrapreso nuovamente la strada dell'eroismo (e non ci riferiamo a ironici Bruce Willis e Vin Diesel), spinta dalla ricerca di valori di unità e fraternità, sottoposti a dure prove dagli eventi della realtà di tutti i giorni.

Alamo - Gli ultimi eroi, ambientato nel 1836, anno della leggendaria e sanguinosa battaglia, è più figlio dei nostri tempi che di quelli delle origini degli Stati Uniti. E' un film sull'americanismo e sugli uomini che combattono e muoiono per un ideale, ma ha un difetto non indifferente: nei momenti di immancabile retorica, si parla addosso ed esalta (presumiamo volontariamente, senza voler fare in alcun modo politica) un arrogante orgoglio a stelle e strisce. Alamo è per la storia americana un momento indimenticabile, un luogo di culto e ancor più un simbolo per adulti e bambini.

Nel 1836, come scrivevamo prima, un gruppo sparuto di uomini prende possesso dell'avamposto di Alamo, una fortezza non certo inespugnabile, per difendere il Texas dall'assalto dell'esercito messicano, condotto dal perfido Antonio Lopez de Santa Anna. Fra gli aspiranti suicidi, poichè il Messico può vantare migliaia di soldati, c'è anche il mitico Davy Crockett, mosso più dagli ideali che dal desiderio di uccidere. L'impresa è improba, l'avversario troppo numeroso, e i "nostri", devono soccombere. Saranno massacrati uno ad uno. Il Generale Sam Houston, sebbene si trovi sotto la pressione dei suoi uomini desiderosi di vendicare i propri morti, temporeggia, ragiona e, come trent'anni prima, quando Wellington aveva sconfitto Napoleone a Waterloo, affronta i messicani in campo aperto. Il resto è nei libri di storia.

La capacità di esprimere miti e leggende del passato si scontra, in Alamo, con la prolissità della messa in scena, desiderosa di descrivere i fatti e le vite dei personaggi, generando inevitabilmente un'azione lenta e farraginosa, in particolare nella prima parte. John Lee Hancock, autore in passato della sceneggiatura di Un mondo perfetto (diretto da Clint Eastwood), sembra dimenticare il suo approccio critico e cinico, per tuffarsi a capofitto nelle emozioni costruite, sintetiche, che sembrano studiate a tavolino. Così accade nella scena in cui Davy Crockett per zittire il continuo e frastornante suono della musica prodotta dall'esercito messicano, non trova di meglio che imbracciare il suo violino e iniziare a suonare su una torretta del forte di Alamo. D'improvviso sopraggiunge il silenzio e alcune parole - è incredibile che cosa può fare un'armonia.

Se quindi, il tema dell'eroe potrebbe essere incarnato dalla seppure buona interpretazione di Billy Bob Thornton, che, con il suo espressivo viso, descrive Davy Crockett non omettendone le sofferenze, l'enfasi prende possesso degli uomini di Alamo, e tenta di coinvolgere lo spettatore con le patriottiche reazioni degli americani, condannati alla morte, perché "senza sangue e senza lacrime non c'è gloria" come ricorda il generale messicano, prima dell'assalto. La vendetta finale, di conseguenza, non è un atto negativo se giustificato dagli eventi e dall'onore, ma il grido - ricordatevi Alamo! - del generale Houston, suona più come un messaggio attuale che il simbolo del mito che è stato. Nel bene e nel male.