Recensione Hanna (2011)

Dopo il dramma Espiazione, il regista Joe Wright torna a lavorare con l'attrice Saoirse Ronan, che si conferma interprete istintuale e versatile per un film dalla messa in scena imponente e curatissima.

L'innocenza di un'assassina

La giovane Hanna, 16 anni e un visino angelico, è la killer perfetta. Cresciuta dal padre Erik in totale isolamento tra i monti della Finlandia, la ragazza è stata addestrata fin da piccola alle più letali tecniche militari e di autodifesa; il genitore, vedovo ex agente della CIA, ha voluto fare di sua figlia una perfetta macchina per uccidere per regolare i conti con Marissa Weaver, collega con cui intuiamo esserci stato un passato conflittuale. Così Hanna, fino a 16 anni, caccia, impara a sparare e ad usare le arti marziali, apprende ed assorbe una quantità enorme di informazioni (tra cui la conoscenza di varie lingue) ma è come un libro bianco per quanto concerne l'esperienza concreta del mondo: le relazioni umane non le appartengono, così come gli agi della società moderna, tra cui un semplice televisore acceso, sono per lei realtà oscure. Ma Hanna è anche curiosa, e ad un certo punto la sua voglia di sperimentare concretamente il mondo non può più essere trattenuta: così, attraverso la messa in opera di uno stratagemma architettato da suo padre, la ragazza viene catturata dagli agenti della CIA mentre Erik scappa in Germania: ma per Hanna fuggire dalla temporanea prigionia sarà letteralmente un gioco da ragazzi. L'obiettivo da raggiungere, e da eliminare, è proprio l'agente Weaver, che nel frattempo ha sguinzagliato dei killer sulle tracce della ragazza.


Dopo il dramma Espiazione, il regista Joe Wright torna con questo Hanna a lavorare con l'attrice Saoirse Ronan, che proprio per quell'interpretazione del 2007 aveva ottenuto, ancora praticamente bambina, una candidatura all'Oscar. La giovanissima attrice, assurta qui al ruolo di protagonista, si conferma interprete istintuale e versatile, dando vita a un ritratto di killer adolescente non facile da interpretare: Hanna ha subito un'educazione che rappresenta un tutt'uno col suo addestramento militare, non prova rimorso ad uccidere essendo stata abituata a pensare all'omicidio come a un'attività normale, tecnicamente complessa da eseguire ma non moralmente riprovevole. Ma sul viso di Hanna (e della Ronan) c'è anche l'inconsapevolezza e l'innocenza di chi non ha mai conosciuto e sperimentato il mondo, i rapporti con gli altri, la realtà del vivere civile: tutto appreso in decine di libri, in studi accurati e metodici, ma mai toccato direttamente con mano. Gli esseri umani, e la loro vita associata, sono un terreno tutto da sperimentare per Hanna, che si muove tra i suoi simili come un'aliena, ripetendo a menadito formule e concetti (oltre alle bugie insegnatele dal padre) di ben scarsa utilità quando si tratta di affrontare la vita concreta. La Ronan sembra così trovare la chiave giusta per restituire sullo schermo quel misto di amoralità e innocenza, tenero e inquietante al tempo stesso, che caratterizza la scrittura del personaggio: alcune riuscite sequenze come la reazione di Hanna agli oggetti elettrici in funzione in una stanza d'albergo, o quella (molto divertente) del primo bacio dato dalla ragazza a un suo coetaneo, mostrano l'ottima lettura che la giovane attrice ha dato del suo personaggio.

Un altro indubbio punto di forza del film, oltre all'interpretazione della Ronan (e a quelle ugualmente efficaci di Eric Bana e Cate Blanchett, che vestono rispettivamente i panni di Erik e della crudele Weaver) è l'impianto visivo che Wright ha voluto dare alla pellicola, di buon impatto ancorché non indifferente alle mode del cinema contemporaneo: il taglio da videoclip, il montaggio serrato, la macchina da presa costantemente in movimento non sono espedienti utilizzati in modo gratuito, ma si rivelano perfettamente funzionali allo spaesamento provato dalla giovane protagonista durante la sua fuga. Una regia nervosa ma abbastanza controllata, che segue Hanna quasi identificandosi con lei, ma è capace di aperture oniriche anche quando sotto l'obiettivo sono i pensieri (e gli incubi) di altri personaggi, come quello della Weaver nella scena di un fondamentale ricordo.
Il limite di questo Hanna, visivamente riuscito ed efficace dal punto di vista dell'intrattenimento, sta in un intreccio eccessivamente esile, oltre che in alcune evidenti incongruenze di sceneggiatura. C'è pochissimo di originale nel soggetto (specie per come viene definitivamente rivelato verso la fine del film) così come in un intreccio spionistico/fantastico che da subito si pone sui binari che ci si aspetta; a tratti, invero, la seconda componente prende il sopravvento a tal punto, e in modo così smaccato, che si fa fatica a prendere sul serio il tutto. La facilità disarmante della fuga della protagonista, unita all'incapacità a tratti imbelle dei suoi inseguitori (tra cui spicca comunque un bravo Tom Hollander: il motivetto da lui fischiettato a più riprese resta in testa per parecchio tempo dopo la visione) mostrano una gestione non ottimale della narrazione, e a tratti compromettono un po' la capacità di coinvolgimento del film.
Tuttavia, questo Hanna sembra essere uno di quegli esempi di cinema in cui la forza della messa in scena prende il sopravvento sulla narrazione, esprimendo una "pesantezza" e una resa visiva potente, a tratti strabordante: una regia che preme ed invade tutte le altre componenti filmiche (con l'unica eccezione dell'interpretazione della protagonista) in una pellicola che esprime così una sorta di formalismo postmoderno, inserito nella cornice di un thriller d'azione. Comunque la si voglia vedere, il risultato è complessivamente interessante e merita almeno una visione.

Movieplayer.it

3.0/5