Recensione L'ultimo inquisitore (2006)

Il film di Forman fatica ad entrare a regime e, sul più bello, si perde in riflessioni socio-politiche ridondanti ed inattuali, descrivendo un '700 irreale ed enfatizzato, guardato con occhi dogmatici e privi di acume.

Il vangelo secondo Forman

Il ritorno di un pluripremiato all'Oscar qual è Milos Forman si annuncia in grande stile. Il cast tecnico è stellare, comprendendo Jean-Claude Carriere, già collaboratore di Bunuel, alla sceneggiatura, Javier Aguirresarobe, reduce dai successi più recenti di Amenabar, alla fotografia, Patrizia Von Brandenstein, insignita della prestigiosa statuetta dell'Academy per Amadeus, come scenografa e Yvonne Blake, anche lei vincitrice di un Oscar, ai costumi.
Non da meno il cast artistico, che fonda il suo carisma sull'assemblamento di un trio di tutto rispetto, composto da Javier Bardem, Stellan Skarsgard e dalla bella Natalie Portman.

Una banda notevole quella assemblata e diretta da Forman per il suo ritorno alla regia, messa al lavoro su un argomento per nulla facile a partire dallo sfondo storico, quello dell'inquisizione e della Spagna di fine '700, stretta nella morsa di sangue fra monarchia e rivoluzione.
L'autore sceglie la formula del mescolamento dei punti di vista, cercando di evidenziare il più possibile le contraddizioni e le tante sfaccettature di un epoca difficile. Così si passa, lungo il corso di tutta la pellicola, a immedesimarsi e a seguire di volta in volta le vicende del celebre pittore Francisco Goya (interpretato da Skarsgard) - che dà il titolo all'edizione originale della pellicola, Goya's Ghosts - di padre Lorenzo (Bardem), prima fervente membro del Santo Uffizio, poi, 'convertitosi' ad acceso sostenitore degli ideali rivoluzionari, e di Ines (la Portman), figlia di una famiglia di ricchi mercanti, sottoposta senza motivazioni apparenti al giudizio dei padri inquisitori.
Scelta che porta, inevitabilmente, alla frantumazione della narrazione in tanti piccoli rivoli, molti dei quali si caricano eccessivamente di un sapore forzato ed eccessivamente drammaturgico.

Sensazione di disgregazione dell'unità visiva e narrativa che deriva anche dalla costruzione poco solida della figura portante del film, quella di Goya, relegato a semplice e timido spettatore degli eventi, e all'eccessiva enfatizzazione della figura di Bardem, poco credibile nei suoi repentini mutamenti di stile recitativo.
Ulteriore elemento sfavorevole alla buona riuscita dell'opera di Forman, è l'esasperata (ed esasperante) enfatizzazione del contesto storico in cui ci si muove, quello spagnolo fotografato in due diversi momenti. Il primo è il 1792, nel clima di falsa quiete che precedette la rivoluzione francese, il secondo è il 1807, con la terra iberica dilaniata dalle truppe napoleoniche, da un lato, e dall'esercito restauratore di Wellington, dall'altro, inquadrati tra atrocità e protervia del potere senza soluzione di continuità, passando indifferentemente tra vescovi inquisitori, monarchi illuminati ed eserciti liberatori.

Forman ha dichiarato che l'interesse per l'argomento risale a cinquant'anni fa, e fu suscitato da un non meglio precisato libro sull'inquisizione, e che il terreno della Spagna a cavallo fra i due secoli fosse il più adatto per parlare metaforicamente della cacciata dei nazisti e dell'arrivo dell'armata rossa nella Cecoslovacchia del '45.

Il problema è che Forman, a distanza di mezzo secolo, si rifà esattamente a quell'idea, ormai inattuale, non comprensibile né decodificabile dal pubblico, enfatizzando e caricando ogni singola sequenza al di là di una semplice sintassi narrativo-figurativa. Reiterata ininterrottamente lungo il corso delle due ore del film, questa operazione risulta fastidiosa e ridondante. Per cui la pellicola si sostiene con una certa efficacia nella prima parte (ottimi i titoli di testa costruiti su alcuni bozzetti di Goya), incentrata sulla storia e sul delineamento di personaggi e contesto, perdendosi poi rovinosamente al di là della didascalia recitante '15 anni dopo', quando si palesa l'ossessione per le motivazioni politico-sociali che, contestualizzate così precisamente all'interno di un film in costume, stridono e acquistano un significato narrativo totalmente diverso (unico guizzo nell'evocativa inquadratura finale).

Pensato e realizzato con queste finalità, seguendo un disegno inattuale storicamente e fastidiosamente ridondante cinematograficamente, il film di Forman delude sotto molti punti di vista. Mantiene, come isolati punti di forza, l'indiscutibile bravura del cast e la ricchezza di scenografie e ricostruzioni. Poco, troppo poco per una soddisfacente riuscita del film.