Recensione Cous cous (2007)

Il realismo di Kechiche è inutilmente prolisso, con lunghissime sequenze, ricche di dialoghi infiniti evidentemente frutto d'improvvisazione, a raccontare la difficile vita quotidiana di questa famiglia araba composta di tante anime diverse.

Il sogno del couscous

Anche la Francia fa capolino alla 64. Mostra del cinema di Venezia. E' quella di Abdellatif Kechiche, regista tunisino pluripremiato nel 2003 per La schivata, che porta in concorso un film fiume su una famiglia di origine magrebina allo sfascio che tenta pazientemente di ricompattarsi attorno al sogno di un padre sessantenne ormai soffocato sul fondo della propria esistenza. Ambientato a Sete, cittadina di mare vicino Marsiglia dove non sembra esserci altro cibo che pesce, La graine et le mulet comincia come un film denuncia su un mondo del lavoro ormai ridisegnato dai ritmi della contemporaneità, con un uomo, Beiji, che vede limitata al minimo la sua mole lavorativa a fronte della nuova richiesta di lavoro giornaliero, attualmente più conveniente per i padroni, per poi divenire un vero e proprio feuilleton familiare con le poche gioie e le tante tensioni che un gruppo così complesso di persone può far scatenare in qualsiasi momento, finendo con lo scivolare spesso in accese schermaglie. E le possibilità di una loro vita serena insieme si legano tutte al sogno del vecchio protagonista, diviso tra un'ex-moglie indifferente ai suoi problemi finanziari, un nugolo di figli e figliastri difficile da gestire, ognuno coi propri problemi, e una nuova donna da accontentare. Beiji mira infatti all'apertura di un ristorante su una barca, acquistata per pochi spiccioli,specializzato in cuscus al pesce, l'ultima speranza di una vita malinconicamente avviata al tramonto.

Il regista tunisino emigrato in Francia racconta qui un universo che ben conosce, quello della comunità araba ormai di casa in terra transalpina, con l'obiettivo dichiarato di smontare le convinzioni che vogliono le speranze del mondo più povero automaticamente realizzate in quello, solo all'apparenza o nelle illusioni di chi è lontano, più sviluppato, abbondante, terra delle possibilità. Il suo protagonista è un uomo senza più dignità, continuamente umiliato dalla volgare arroganza del quotidiano che neutralizza ogni sua ambizione. Attorno a lui una serie di personaggi complessi, che, incapaci di riconoscersi, soffrono di una solitudine che li fa progressivamente scolorire. Kechiche cerca sempre i loro volti, racconta la loro condizione senza cedere ad inutili tragedie, trovando un adeguato riscatto al suo pessimismo nella danza finale che riunisce tutti insieme, comprese le famiglie altre che fino a poco prima rappresentavano una minaccia, in un unico abbraccio collettivo, perché senza solidarietà non sembra esserci possibilità per la speranza. Il realismo di Kechiche purtroppo è inutilmente prolisso, con lunghissime sequenze, ricche di dialoghi infiniti evidentemente frutto d'improvvisazione, a raccontare la difficile vita quotidiana di questa famiglia araba composta di tante anime diverse, dove i valori, le ambizioni, i punti di vista dell'uno sembrano non coincidere mai con quelli dell'altro. Le capacità di Kechiche in fase di scrittura soffrono di una mancata sfrondatura che avrebbe naturalmente giovato al film, lungo addirittura due ore e mezza. Abusando della pazienza dello spettatore si rischia di perdere la sua attenzione. C'è da meditare.