Il poeta del reale: conversazione con Jia Zhang-ke

Incontro con uno dei più acclamati registi cinesi contemporanei, vincitore del Leone d'oro di Venezia nel 2006 con "Still Life", giunto a Roma per presentare la retrospettiva che gli ha dedicato l'Asian Film Festival 2009.

La differenza tra Jia Zhang-ke e cineasti come Zhang Yimou o Chen Kaige appartenenti alla precedente "Generazione" (così, infatti, vengono classificati i registi cinesi) si nota al primo impatto. L'autore del celebrato Still Life, che tre anni fa si aggiudicò il Leone d'oro veneziano, non ha infatti nulla a che spartire con l'aura quasi mistica che ormai avvolge i registi di Lanterne rosse e Addio mia concubina. Jia Zhang-ke, al contrario, è all'apparenza timido e riservato, ma sa anche rivelarsi estremamente aperto e disponibile nel raccontare di sé e della sua arte. Proprio come i suoi film che - rifiutando gli sfarzi e le ricostruzioni in studio delle produzioni cinesi del passato - si avvicinano alla realtà in maniera discreta, riuscendo però a toccare il cuore pulsante dei drammi e delle contraddizioni del suo tempo.
Giunto a Roma assieme all'attrice e compagna Zhao Tao in occasione della corposa retrospettiva che gli dedica l'Asian Film Festival 2009, Jia Zhang-ke, seduto in un bar di Campo dei Fiori discute senza remore del suo cinema, rivelando influenze e ispirazioni. Ne esce fuori una lunga conversazione - condotta assieme al collega Alessandro Aniballi e con l'aiuto dell'interprete Liliana Lao - in cui si intrecciano vari argomenti, dalla vocazione al realismo all'estetica del digitale, dall'influsso della pittura nelle sua opere, al contributo decisivo degli attori.

Il filo conduttore che permea tutta la sua produzione artistica è la vocazione al realismo. Tuttavia il suo cinema non si limita ingenuamente a cercare di catturare la realtà, ma introduce spesso elementi di distorsione (gli inserti animati di Il mondo, le animazioni in computer grafica di Still Life) e alterna di continuo fiction e documentario. Come riesce a coniugare questi elementi apparentemente contrastanti?

Jia Zhang-ke: Non penso ci sia un grande divario tra fiction e documentario, perché la mia intenzione è in ogni caso quella di catturare la realtà e credo ciò si possa fare anche attraverso elementi di finzione cinematografica. Non ritengo ci sia una discontinuità, una contraddizione, tra queste due dimensioni. Questo perché esiste anche un tipo di verità che non è possibile registrare in maniera diretta, ma che si manifesta esclusivamente attraverso la nostra immaginazione. L'immaginazione è, a mio parere, soltanto un ulteriore tipo di realtà possibile.

Anche la scelta, a partire dal 2001, di girare i suoi film esclusivamente in digitale è da mettere in relazione con questa incessante e ossessiva ricerca della realtà? Pensa che la tecnologia digitale possa essere lo strumento ideale per dare corpo alla sua visione artistica?

Esattamente. Adoro il digitale, proprio perché permette di approcciarsi alla realtà in maniera molto meno invasiva rispetto alla tecnologia tradizionale. Ad esempio, con la videocamera digitale sono in grado di avvicinarmi moltissimo ai visi delle persone e di catturarne tutte le sfumature. A questo si aggiungono ovviamente anche i vantaggi nell'abbattimento dei costi di produzione e nella maggiore facilità e rapidità durante le fasi di lavorazione e di ripresa.
Ma, al tempo stesso, ritengo che il digitale consenta a un autore di esprimere maggiormente la sua vena creativa, garantendo una notevole libertà nella composizione dell'immagine e nella definizione dei colori. Ho iniziato la mia carriera artistica come pittore e trovo che con le nuove tecnologie digitali il nuovo cinema si stia molto avvicinando alla pittura.

Esistono in effetti molte similitudini tra il suo stile di regia, votato al pianosequenza e alle lunghe carrellate, e lo stile di pittura tradizionale cinese, in cui lo sviluppo di un'azione era rappresentato in lunghi rotoli di carta che si svolgevano progressivamente.

Sì, mi ispiro molto all'arte tradizionale cinese e alla pittura su rotoli. Ho studiato arte per tre anni, ho avuto modo di approfondire queste tecniche artistiche e ne sono rimasto affascinato. Inoltre, questo tipo di inquadrature consentono di includere in un'unica immagine più persone contemporaneamente e soprattutto molti visi diversi insieme, cosa che amo particolarmente.

Nel suo cinema convivono in maniera postmoderna sia riferimenti all'arte classica (non solo la pittura, ma anche l'opera cinese), sia le manifestazioni della cultura popolare contemporanea (la musica pop, il cinema commerciale di Hong Kong). Come si coniugano questi elementi?

Da una parte ho molti amici artisti e ho dedicato loro anche due film, Dong (2008), che ha per protagonista il pittore Liu Xiaodong, e Useless (2007) incentrato sulla stilista Ma Ke. Nonostante l'utilizzo di forme artistiche differenti, trovo che tutti e tre siamo animati dallo stesso interesse nei confronti della realtà e dalla stessa vocazione nel catturare i sentimenti della gente.
Per quanto riguarda la cultura pop, invece, penso che attraverso il canto e il ballo i cinesi siano in grado di esprimere emozioni molto forti, che in condizioni normali non lasciano trapelare. Nei miei film mi servo di queste produzioni artistiche più popolari (tra cui la danza moderna o il karaoke) come veicoli per mostrare la reale natura emotiva dei personaggi.
Inoltre, prima della riforma degli anni Ottanta il popolo cinese non aveva la possibilità di fruire di forme di intrattenimento e di svago, perché le uniche manifestazioni culturali consentite erano i grandi spettacoli di propaganda del Partito comunista. Avendo trascorso la giovinezza proprio a cavallo di quegli anni, apprezzo ancora di più questi mutamenti. Adesso ogni anno escono in Cina una o due canzoni popolari che hanno un enorme successo, e che finiscono per rappresentare i sogni e le speranze delle persone in quel periodo.

Una delle cose che colpiscono più nei suoi film è, nonostante tutto, la grandissima carica umana sprigionata dai personaggi. Penso che la recitazione abbia un ruolo importante nel veicolare i sentimenti e le emozioni. Forse anche per questo lei decide spesso di ricorrere agli stessi attori, a cominciare da Zhao Tao, sua compagna di vita e artistica dai tempi di Platform. Come dirige i suoi interpreti?

La scelta di ricorrere agli stessi attori deriva dal fatto che sin dai primi film riuscivo a raggiungere con loro un'intesa perfetta sul piano comunicativo, cosa che mi consente di risparmiare molto tempo nella fase delle riprese. Ma soprattutto mi interessa catturare l'evoluzione degli interpreti sia a livello di maturazione professionale, sia di crescita "anagrafica", in modo da registrare anche lo scorrere del tempo sui loro volti.
Amo la spontaneità degli attori, lascio dunque molta libertà durante le riprese e incoraggio l'improvvisazione, anche a livello linguistico. Per questo motivo a volte faccio recitare gli interpreti nel loro dialetto d'origine, in modo che i dialoghi risultino il più possibile naturali.

Le cosiddetta "Sesta Generazione" di cineasti cinesi, di cui lei è considerato esponente di spicco, ha completamente rivoluzionato il precedente approccio al cinema, uscendo fuori dalle case di produzione governative per andare a catturare la realtà sociale in maniera più libera e diretta. Quali sono secondo lei le maggiori differenze rispetto ai registi della generazione precedente, come Zhang Yimou o Chen Kaige?

C'è una forte differenza tra i due tipi di cinema. Registi come Zhang Yimou o Chen Kaige nella maggior parte dei casi sono interessati a tematiche storiche, mentre i cineasti della nuova generazione si focalizzano soprattutto sull'attualità e sui radicali cambiamenti politici e sociali che sta attraversando la Cina in questo momento. Inoltre, noi registi della "Sesta Generazione" siamo cresciuti più o meno nel medesimo periodo e quindi siamo influenzati dallo stesso tipo di ricordi, come ad esempio la rivolta di piazza Tiananmen. Le successive generazioni matureranno una visione completamente diversa, probabilmente ancora più individualista e legata allo sviluppo del consumismo.

Quali sono invece i registi del passato che considera dei punti di riferimento?

Tra i registi occidentali Michelangelo Antonioni e Robert Bresson, ma anche esponenti del Neorealismo italiano come Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. Per quanto riguarda gli autori asiatici soprattutto lo storico regista cinese Fei Mu e il giapponese Yasujiro Ozu, mentre tra i contemporanei Hou Hsiao-hsien.