Recensione Manhunter - Frammenti di un omicidio (1986)

Niente è lasciato al caso o all'improvvisazione. Tutto è in funzione di qualcosa e tutto ha valore solo nella misura in cui fornisce un'atmosfera atta a metaforizzare lo stato d'animo dei personaggi.

Frammenti di un capolavoro

In assoluto uno dei primissimi film con al centro la figura del serial killer, Manhunter - Frammenti di un omicidio, tratto dal romanzo Red Dragon di Thomas Harris, è la storia di Will Graham, agente dell'FBI in congedo. Graham ha smesso la professione dopo essere rimasto fisicamente e moralmente sconvolto dalla cattura del dottor Lektor (Mann cambiò curiosamente il nome che sarebbe divenuto celebre qualche anno più tardi nel film di Jonathan Demme Il silenzio degli innocenti). Il suo collega e amico Jack Crawford, però, cerca di farlo tornare al lavoro per sfruttare le sue incredibili doti di "manhunter" nella caccia ad un nuovo assassino, soprannominato Dente di Fata. Partendo dalle indicazioni che Lecter-Lektor gli fornisce dal manicomio criminale nel quale è rinchiuso, troverà la soluzione del caso solo quando riuscirà ad identificarsi quasi totalmente con la parte più nascosta e repressa di se stesso, quella più vicina agli orrori che animano la mente del killer.

Manhunter, affidato a Michael Mann (allora all'apice del successo con Miami Vice) da de Laurentis nel 1985 è un'opera fondamentale nella sua filmografia per varie ragioni che proveremo brevemente ad elencare.
Innanzitutto è il primo film dove Mann mette a nudo il suo preciso progetto estetico-formale. In Manhunter niente è lasciato al caso o all'improvvisazione. Tutto è in funzione di qualcosa e tutto ha valore solo nella misura in cui fornisce un'atmosfera atta a metaforizzare lo stato d'animo dei personaggi. Un lavoro meticoloso e molto suggestivo, allo scopo di raggiungere una ricercata e critica saturazione dell'orizzonte visivo, lontana anni luce dalla sovrabbondanza cara a tanto cinema meanstream. Il vedere è tra l'altro un elemento fondamentale di tutta la pellicola: è tramite il visus che si instaura il contatto tra il killer e il suo cacciatore ed è sempre tramite questo che Dente di Fata esercita il suo maligno potere ed il suo delirio di onnipotenza.
Una profonda riflessione sullo sguardo quindi, per un certo verso analoga al discorso di Stanley Kubrick: lo sguardo come potere e come forza ri-creativa ma anche come limitazione, crisi, mistificazione; osservazione tramite "occhi chiusi-sbarrati". Guardare ed essere guardati.

Sotto il profilo squisitamente tecnico invece, il gran merito di Mann è quello di riuscire ad inquietare enormemente mediante un approccio alla narrazione mai banale. Mann rinuncia a tutte le più abusate e convenzionali rappresentazioni del male e prende la strada del rigore stilistico e della ricchezza grammaticale (una ricchezza, ribadiamo, dove tutto ha un senso e niente sa di formalismo) e aiutato dal fondamentale apporto di Dante Spinotti (straordinario direttore della fotografia con il quale inizierà un sodalizio ancora in corso) griffa un film memorabile con all'interno alcune scene che entreranno di diritto nella storia del cinema. Esemplare è a questo proposito l'uso dei colori e la geografia del set: ogni sentimento è rappresentato da un colore. Qualche esempio: il bianco spoglio della cella di Lektor unito alla scientifica angolazione delle sbarre ha lo scopo di rappresentare la paura e l'anoscia che pervade il protagonista. Diversamente è un blu profondo e ammaliante a tratteggiare tutti i momenti di romanticismo tra Graham è la moglie, mentre sono il verde e il rosso intenso uniti al particolarissimo simmetrismo del design della casa e alla ricercata esposizione alla luce a simboleggiare la pericolosità del serial killer, qualunque fosse l'azione che eserciti (non a caso uno dei momenti di massima tensione è la sua unione amorosa e non un'impennata violenta).

A questo discorso si lega indissolubilmente un altro fattore che fa di Manhunter un film chiave nel discorso di Mann: la personalizzazione e la frammentazione della meccanica narrativa del cinema di genere. Il lavoro che il regista americano fa sul cinema di genere, specie sul poliziesco, è infatti assolutamente particolare. Mann non ne fa a pezzi o ne decostruisce gli elementi cardine, come molto cinema post-moderno, al fine di utilizzare il genere esclusivamente come un universo dotato di senso autonomo, su cui sperimentare delle soluzioni. L'interesse del futuro regista di Heat - La sfida è piuttosto quello di dare voce a dei personaggi in crisi perenne, assolutamente incapaci di entrare in sintonia con il mondo che li circonda. Questo conflitto, sia interiore che esterno, è la ragione delle loro azioni e del loro modo di porsi rispetto alla realtà.

E' in questa chiave che vanno lette le continue divagazioni diegetiche apparentemente spiazzanti e la caratterizzazione profonda di qualsiasi personaggio; elemento quest'ultimo in forte controtendenza con gran parte del cinema americano, specie hollywoodiano. In questo contesto il cinema di genere diventa l'unico elemento che avvicina il cinema di Mann ai prodotti più convenzionali, fornendogli una fruibilità maggiore. Una strategia, per molti versi, simile a La mosca, film tipicamente cronenbergeriano nelle tematiche, ma sostanzialmente inquadrabile nel cinema horror più classico.