Recensione Zaïna, cavalière de l'Atlas (2005)

Un film che a tratti scorre piacevolmente, quando non decide di dilungarsi su inquadrature e dialoghi inutili, ma non ha molto più della forma di un prodotto per la televisione.

Fiaba a metà

Zaïna è una ragazzina a cui è appena morta la madre, che si trova costretta a scegliere tra rimanere con il patrigno Omar, che la vuole a tutti i costi ma che lei odia, o seguire il padre naturale Mustapha, che aveva a suo tempo ripudiato la madre, lungo il percorso che li porta a Marrakech, per partecipare a una corsa di cavalli. Per la strada accadono diverse disavventure, non ultima quella di avere sempre Omar alle calcagna: presenza, quella del patrigno, troppo "fisica", e quindi anche un po' comica, dal momento che non è la minaccia di lui ad aleggiare sui personaggi, ma sempre e unicamente la sua persona; non si crea nessuna suspence grazie alla quale si potrebbe almeno giustificare il fatto che, con tutti gli uomini che ha, Omar non riesce mai a prendere i protagonisti.

Il regista tiene a precisare prima della proiezione del film di aver voluto costruire una fiaba. Il problema è che per costruire una fiaba non basta iniziare con "c'era una volta" e concludere col lieto fine. Zaïna non ha il linguaggio di una fiaba, perché non ne possiede, per esempio, né la leggerezza né la concisione nell'esprimere il senso. È un film che a tratti scorre piacevolmente, quando non decide di dilungarsi su inquadrature e dialoghi inutili, ma non ha molto più della forma di un prodotto per la televisione: didascalico, un po' caricaturale e retorico quando cerca di scavare nei personaggi, ripetitivo, pieno di dissolvenze e di scambi di sguardi e un po' troppo ammiccante all'idea del "buon selvaggio". Addirittura è stato presentato dal regista come un film femminista: ma viene da chiedersi, solo perché è Zaïna tra tanti uomini a vincere la corsa in un paese maschilista? Un po' abusato. La "fiaba", il "femminismo" e la scelta del genere sembrano più che altro modi per legittimare qualcosa di alquanto vago agli occhi del pubblico. Che, del resto, ha applaudito generosamente. Mi chiedo cosa avrebbe fatto alla proiezione del peggiore film di Orson Welles. Già, perché la sala della retrospettiva è quasi sempre semivuota, Piazza Grande è strapiena.

Peccato per gli attori, soprattutto Sami Bouajila, bravo nel ruolo del padre. Omar-Simon Abkarian tende, invece, al broncio perenne. Ma il cattivo non doveva essere degno in statura narrativa del buono?