Recensione Big City (2007)

Djamel Bensalah si premura di sottolineare la matrice favolistica del racconto e di elaborare allegorie che risultino comprensibili anche agli spettatori più giovani, cui è chiaramente indirizzata la pellicola.

C'era una volta Big City

Il titolo Big City non tragga in inganno, perché protagonista di questa storia, ma sarebbe meglio dire favola, è appunto un piccolo villaggio sperduto nel Far West. Piccolo è dire poco, tant'è che sarebbe più appropriato definirlo "in miniatura". Tutti gli abitanti di Big City, infatti, sono rigorosamente under-12 da quando gli adulti, per respingere l'attacco di una tribù pellerossa, si sono allontanati dal paesello senza fare più ritorno. Gli unici maggiorenni superstiti - lo scemo del villaggio e un vecchio beone nascostosi durante l'agguato indiano - non sono certo tipi su cui contare. I ragazzini, allo sbando, dapprima piombano in una fase anarchica (il saloon diventa un parco giochi straripante di bolle di sapone); ma poi, sotto la guida di una pervicace maestrina, decidono di "responsabilizzarsi" perseguendo le orme dei padri (e ricadendo spesso nei loro stessi errori). In particolare, l'odioso figlio del sindaco trama con i suoi sgherri di impossessarsi della città e di far piazza pulita di stranieri e minoranze etniche (non esitando nemmeno a indossare le vesti del Ku Klux Klan). A sconvolgere i loro piani intervengono però i figli degli indiani, anch'essi abbandonati dai loro genitori dopo lo scontro.

I più cinefili forse si ricorderanno di Piccoli gangsters, parodia del genere noir firmata da Alan Parker nel 1976, i cui protagonisti erano imberbi criminali che preferivano alle gragnole di mitraglia delle più innocue torte in faccia. Il regista francese Djamel Bensalah, apprezzato autore di commedie in patria ma praticamente sconosciuto all'estero, ripropone il medesimo approccio rifacendosi a un genere altrettanto fondativo per la cultura americana: il western. Il risultato non è tuttavia all'altezza del predecessore: mentre il film di Parker risultava sospeso in una dimensione quasi onirica e surreale e satireggiava in maniera implicita ma più incisiva, Big City possiede invece i contorni più rassicuranti e normalizzanti di una favola dalla morale troppo didascalica.

Djamel Bensalah si premura di sottolineare la matrice favolistica del racconto, introdotto da un vecchio narratore che si rivelerà poi essere anch'esso personaggio della storia. Inoltre, si preoccupa di elaborare allegorie che risultino comprensibili anche agli spettatori più giovani, cui è chiaramente indirizzata la pellicola. A partire dai nomi dei personaggi, veri e propri nomen omen dalla valenza simbolica: l'eroe tutto d'un pezzo manco a dirlo fa di cognome Wayne, i due bimbi di colore si chiamano Jefferson e Independance, l'ebreo suonatore di piano è Gershwin e così via. Sempre per amor di chiarezza metaforica, nella sequenza introduttiva in cui i genitori si preparano alla guerra, per una frazione di secondo compare nientemeno che il volto del fuorilegge Osama Bin Laden in un manifesto da ricercato.

Il risultato è un apologo morale, molto "francese" nello spirito, che riflette sulle contraddizioni dell'America di ieri, molto simili a quelle di oggi: esemplare la scena in cui, mentre la maestrina Mrs. Robinson discetta di fronte ai suoi alunni di eguaglianza e diritti costituzionali, il servo di colore continua a spazzare nell'aula. Djamel Bensalah - cui va riconosciuta l'indubbia bravura nella gestione di un cast così difficile - ha ambizioni di denuncia molto vaste, che vanno dal razzismo al capitalismo selvaggio incurante dell'ambiente. I più piccoli si divertiranno e i loro genitori apprezzeranno i messaggi dal sicuro valore educativo. Tutti gli altri, forse, potrebbero pensarla come il buon vecchio David Lynch: "Se vuoi mandare un messaggio vai all'ufficio postale".