Bruce Lee: il mito e l'eredità, 40 anni dopo

Nel quarantennale della morte del grande artista hongkonghese, restano un pugno di film che avrebbero fatto conoscere le arti marziali cinesi al mondo, il rinnovamento di un genere e il suo sdoganamento, nonché il rimpianto per una scomparsa prematura, che avrebbe tuttavia consegnato il personaggio al mito.

Un'icona, cinematografica e non: nel quarantennale della sua scomparsa, il termine che meglio si adatta alla figura di Bruce Lee è ancora questo. Simbolo per eccellenza delle arti marziali cinesi, e apripista della loro diffusione in Occidente, cinese di Hong Kong, orgoglioso delle proprie origini, ma nato in America e innamorato di quel paese; filosofo e instancabile divulgatore del lato spirituale del kung fu (al punto da crearne di sana pianta una variante, il Jeet Kune Do) ma anche uomo dal temperamento sanguigno come i personaggi che ha interpretato; atleta dotato di straordinaria forza e capacità fisica, stroncato tuttavia da un malore dovuto (probabilmente) a una banale, e mai diagnosticata, ipersensibilità ad un farmaco.

Bruce Lee in una scena de I tre dell'Operazione Drago
Bruce Lee in una scena de I tre dell'Operazione Drago

Il mito del Piccolo Drago vive anche (e soprattutto) di contraddizioni: la sua stessa morte, oggetto delle inevitabili congetture, lo consegna alla storia come eroe tragico, ma con un'immagine di invincibilità giovanile per sempre scolpita nella memoria. Come i miti James Dean e Marilyn Monroe, non a caso emblemi di quell'America a cui, pur nel sempre ribadito orgoglio delle proprie origini, non smetteva mai di guardare. Guardando, oggi, i film di Lee, resta difficile immaginare il suo corpo (curato maniacalmente, espressione di una rarissima combinazione di potenza e agilità fisica) vittima del tempo e dell'invecchiamento; come per gli esempi su citati, la morte ne ha per sempre fissato, nell'immaginario collettivo, l'immagine, così difficile da replicare dai tanti sosia che, negli anni, hanno tentato di sfruttarne il successo.

Un corpo cinematografico che comunica

E Lee, quanto e più dei suoi colleghi ed epigoni, è in effetti, principalmente, un corpo cinematografico che comunica: difficilmente si può trovare, nella storia del cinema, un altro interprete che con la sua sola presenza fisica riempie (letteralmente) lo schermo, rendendo di fatto secondaria qualsiasi considerazione critica sui suoi film. Il carisma, e la forza comunicativa del personaggio-Lee, bastano a catturare e ipnotizzare l'occhio dello spettatore; il potenziale, già squisitamente cinematografico, delle sue movenze, attirò dapprima l'attenzione di William Dozier (che gli offrì il ruolo di spalla nella serie di successo Il calabrone verde, e un'apparizione in Batman) e successivamente quella del produttore hongkonghese Raymond Chow, che ne favorì l'esordio come protagonista (dopo i vari ruoli minori giovanili) nel fortunatissimo Il furore della Cina colpisce ancora. Fu l'inizio di una breve ma fulminante carriera, che avrebbe provocato l'identificazione di Lee col cinema di arti marziali tout court; facendo anche uscire questo genere dal ghetto del cinema popolare locale, come mai era successo in passato (e come, di fatto, mai più sarebbe accaduto in futuro). I successivi Dalla Cina con furore (distribuito nei paesi occidentali prima del suo predecessore: da qui il titolo, che sembra suggerire una cronologia inversa), L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente, e la co-produzione con gli USA I tre dell'Operazione Drago, avrebbero definitivamente consacrato l'immagine di Bruce Lee come simbolo delle arti marziali cinesi, e come loro più convincente "veicolo" cinematografico.

Un eroe un po' sbruffone, a difesa dei deboli

C'è tuttavia un aspetto del personaggio che spesso si tende a dimenticare, che già in quel primo film da protagonista era evidente, e che sarebbe stato ribadito anche dalle pellicole successive: la componente più prettamente politica dell'immagine cinematografica di Lee, la forte tendenza dei suoi personaggi a porsi come emblemi degli oppressi, degli sfruttati, dei cinesi discriminati nel mondo ma anche, più genericamente, di tutte le minoranze perseguitate. Non è un caso, probabilmente, che i movimenti di contestazione degli anni '70 (quando le rivendicazioni del Sessantotto iniziavano a radicalizzarsi, e l'uso della violenza come mezzo di lotta non era più tabù) accolsero con favore questa immagine di eroe un po' sbruffone, provocatorio ma sempre pronto a lanciarsi in difesa dei più deboli, dei diseredati, delle minoranze schiacciate, di cui egli stesso sentiva di far parte. Nel già citato Il furore della Cina colpisce ancora, infatti, Lee è un giovane proveniente dalla campagna cinese, che si trova a dover sopravvivere nella realtà metropolitana di Bangkok, e a sopportare, insieme ai suoi compagni di lavoro, le angherie di un padrone che si rivela poi un trafficante di droga; ne L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente, è un immigrato cinese a Roma, che difende con le unghie e coi denti un ristorante gestito da suoi compatrioti dalla minaccia dei malavitosi locali; in Dalla Cina con furore, massima espressione dell'orgoglio nazionale tipico dei suoi film, è l'allievo di una scuola di arti marziali cinesi, che si è vista assassinare il proprio maestro e viene costantemente vessata dai rivali giapponesi, nella Shangai occupata del 1910. Emblematica, proprio in quest'ultima pellicola, è la sequenza in cui l'attore, con un calcio volante, distrugge il cartello appeso all'ingresso di un parco pubblico, che recitava "Vietato l'ingresso ai cani e ai cinesi".

Scontri e rivali

Poco importa, poi, se tali messaggi restano in realtà a un livello molto superficiale, e se il nazionalismo, che inevitabilmente vi si accompagna, sfocia spesso in un vero e proprio razzismo: la lapidaria frase "odio i giapponesi" pronunciata nell'appena ricordata pellicola ambientata a Shangai, e il disprezzo più volte espresso per le "inferiori" arti marziali giapponesi e occidentali, sono in questo senso molto espliciti. Messaggi che fanno parte anch'essi delle già ricordate contraddizioni del personaggio (ma anche della complessa realtà sociale, e politica, in cui si muoveva) ma che non hanno impedito di usarne il lato vitalistico e immediato, di farne veicolo di facile immedesimazione, e di legarle a quella presenza fisica strabordante, ipnotica e dirompente, che lo ha caratterizzato così fortemente. Non è un caso, probabilmente, che ne I tre dell'Operazione Drago, dei tre eroi sia proprio il lottatore afroamericano Jim Kelly, praticante di karate, a soccombere (far morire anche John Saxon sarebbe stato probabilmente troppo, per i produttori della Warner); e non è un caso il continuo confronto, che attraversa tutta la filmografia di Lee, con lottatori di altre nazionalità, regolarmente sconfitti; il più noto di questi è certamente un ancor giovane Chuck Norris, col quale l'attore diede vita a quella che è forse la più famosa scena di combattimento di tutto il cinema di arti marziali (venti pagine di sceneggiatura per tre giorni di riprese): quella, spettacolare, ambientata nel Colosseo ne L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente.

Panorama orientale

Va detto comunque che, nel panorama cinematografico della Hong Kong di inizio anni '70, i film interpretati da Lee si differenziavano anche per un'attenzione al realismo sconosciuta alla maggior parte delle pellicole coeve: mentre nel periodo dominavano i wuxia, con frequente uso di cavi e di combattenti dai poteri straordinari, nonché le pellicole ambientate in un lontano passato, il Piccolo Drago era solito fare affidamento solo sulle sue doti fisiche per le sequenze d'azione, in pellicole in gran parte ad ambientazione contemporanea. Una tendenza che avrebbe influenzato notevolmente tutta la produzione successiva, e che comunque si stava accompagnando ad un sempre maggiore controllo, da parte dello stesso Lee, sul processo creativo dei suoi film: se, ne L'urlo di Chen terrorizza anche l'Occidente, l'attore era anche autore dello script, regista, nonché coreografo dei combattimenti, persino nel break statunitense de I tre dell'Operazione Drago (film più "levigato", e inevitabilmente occidentale, dei precedenti) Lee potè coreografare personalmente le scene d'azione. In questo senso, cresce il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere, se quel tragico malore non avesse messo fine alla sua vita, il progetto incompiuto di Game of Death: un film-manifesto sulla sua concezione delle arti marziali, in cui l'ascesa del protagonista all'interno di una pagoda, e il suo fronteggiare nemici sempre più potenti, avrebbe dovuto rappresentare simbolicamente un'ascesa spirituale, e l'affermazione della sua visione flessibile, sempre pronta a ridefinirsi ed adattarsi, dell'arte del combattimento. L'operazione di sciacallaggio compiuta, cinque anni dopo, dalla Warner e dal regista Robert Clouse con L'ultimo combattimento di Chen, mantiene di quel progetto solo il titolo originale, nonché 11 minuti di girato: una piccola parte dei 36 che l'attore era riuscito a realizzare, montati con frammenti dei film precedenti e sequenze girate da sosia, tra i quali spicca un ancor giovane Jackie Chan.

Bruce e Brandon, due tragici, simili destini

Non ci soffermeremo, qui, sul presunto mistero legato alla morte di Bruce Lee, nonché sulle innumerevoli e fantasiose ipotesi che, negli anni, si sono succedute sull'argomento: la tendenza al complottismo, d'altronde (e alle "inchieste" in stile Voyager) è d'uso ogni volta che scompaiono personaggi del genere; specie se le cause accertate della loro fine stridono fortemente (come in questo caso) con l'immagine pubblica del personaggio. La diversa, ma ugualmente tragica, fine toccata, un ventennio dopo, al figlio Brandon Lee, favorisce in qualche modo tali suggestioni; rappresentate (un po' pacchianamente) dal "demone" che perseguita l'attore e suo figlio, nel comunque sufficiente biopic Dragon: La storia di Bruce Lee. L'autopsia sul corpo dell'attore, e il solo rinvenimento nel sangue di cannabis ed Equagesic (il farmaco che, verosimilmente, provocò la reazione fisica che portò l'attore alla morte), dovrebbero essere sufficienti per fugare ogni dubbio: ma ad avere la meglio è stata, anche in questo caso, la voglia di cercare ipotesi più complesse di una realtà molto semplice, che decretava (impietosamente) la fragilità di un corpo che lo schermo aveva reso invincibile.

Un'eredità leggendaria

Restano comunque, dell'eredità lasciata quarant'anni dopo da questo artista, un pugno di film che avrebbero fatto conoscere al mondo un intero genere cinematografico, l'enorme spinta alla divulgazione di una disciplina sportiva (e non solo), e un'immagine fissata per sempre nella memoria collettiva (al punto da dare il "la" a una serie interminabile di cloni e imitatori, nonché di consapevoli parodie). I presunti "eredi" di Bruce Lee, tra i quali spicca il già citato Jackie Chan, oltre ai parimenti noti Jet Li e Donnie Yen, sono in realtà artisti diversissimi, esponenti di un cinema che era già mutato profondamente, pur avendo introiettato e fatta propria le lezione di Lee. Resta anche, per molti spettatori italiani, la memoria dell'"invasione" di pellicole di arti marziali che avrebbero riempito i palinsesti delle TV private tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli '80: frutto dell'onda lunga di una moda che non si era ancora spenta, e che avrebbe generato titoli italiani improbabili (spesso col nome dello stesso Bruce Lee citato a sproposito), doppiaggi fantasiosi, e tagli degni di un montatore schizofrenico. Ciò non toglie che, in un'epoca in cui si era ben lungi dall'avere qualsiasi film a portata di click, quelle pellicole avrebbero contribuito a stimolare la fantasia, e la curiosità, di una parte non indifferente di una (futura) generazione di spettatori: dire che l'attenzione al cinema orientale nasca da quei film è senz'altro esagerato, ma che essi abbiano contribuito, pur inconsciamente, a svilupparla, ci sembra fuor di dubbio. Un altro merito, seppur indiretto, che va ascritto all'arte di Bruce Lee, nonché alla sua perdurante presenza nell'immaginario cinematografico.