Recensione Control (2007)

Rivive al cinema, grazie al fotografo Anton Corbijn al suo esordio dietro la macchina da presa, il mito di Ian Curtis, leader dei Joy Division, in un film intenso e illuminante che ci racconta la tragica vicenda di un genio scomparso prematuramente.

Amore e arte non bastano

Quando il genio si consegna all'autodistruzione tutto ciò che resta è poesia. L'orrore di una vita sprecata scompare dietro l'arte (che sia musica, che siano parole) e il ricordo s'alimenta solo di stupore di fronte a eredità così importanti. Il mito nasce quindi dalla meraviglia. Così è stato per Ian Curtis, leader dagli occhi perennemente sgranati della band post-punk Joy Division, nata e morta sul finire degli anni '70 nei pressi di Manchester. Soli due gli album in studio per loro, abbastanza per consegnarli alla storia. E siccome la storia è fatta di tempi da rispettare, dopo decenni di musica che ha ispirato generazioni di musicisti e regalato emozioni a chi ha saputo riconoscerla e farla propria, è ora giunto il momento di raccontare la tragica storia di quel ventenne triste dietro il microfono. La malinconia dei testi di Joy Division si trasferisce intatta nella pellicola di Anton Corbijn che richiama dalle ceneri Ian Curtis e ne racconta la breve esistenza, ricordando così il suo talento sconfinato, ma senza tacere dei suoi difetti e di quella profonda inquietudine che lo ha portato al suicidio a soli ventitre anni.

L'attività di fotografo del regista, che ha conosciuto in passato Curtis e lo ha immortalato con gli altri membri della band nella famosa foto della metropolitana, è evidente in questo suo primo lungometraggio immerso in un ipnotizzante bianco e nero, realizzato con un'eleganza e un'asciuttezza tali da accogliere senza impacci lo spettatore nelle sue inquadrature scarne, in cui la storia è fatta di corpi, volti, musica, ma anche e soprattutto silenzi. Ian Curtis viene raccontato infatti attraverso le parole del suo protagonista (un incredibile Sam Riley che sbalordisce per la sua capacità di calarsi a meraviglia in un ruolo così difficile da interpretare) trovando nello stesso tempo un impatto potente nelle pause, nei momenti in cui i pensieri non hanno voce, ma si svelano con chiarezza tra sguardi nel vuoto e movimenti di un corpo che parla continuamente. Naturale poi che anche i luoghi si riempiano di senso, dalla periferia del Nord-Est inglese che ingabbia Curtis in un matrimonio troppo precoce e fondamentalmente infelice, alle possibilità di Manchester che consacrano la sua band, della quale è cantante e autore dei testi.

Gloria e tragedia si consumano tutte nel giro di tre anni, facendo dell'esistenza di Curtis un purgatorio in cui l'amore è insieme risveglio e peccato, dove la musica si fa espressione artistica illuminante e valvola di sfogo di tormenti interiori. Perché dentro il genio si annidava un malessere che divora e non restituisce, con una malattia (l'epilessia) deputata soltanto a riaccendere ogni volta le pene interiori, amplificandole ben oltre il limite di sopportazione. E nelle magnetiche fotografie di Corbijn c'è tutta la sofferenza di un uomo che non sa di essere mito: il valore più alto del film sta proprio in questa semplicità estrema con la quale è raccontata la storia di un ragazzo, un ventenne che sente la vita scivolargli via dalle mani, che perde progressivamente il controllo del proprio corpo, dei propri sentimenti. E allora una figlia non basterà a tenerlo accanto alla donna che ha sposato, perché un nuovo amore riaccenderà il suo animo portandolo via dalle certezze ormai opprimenti, ma ancora non sarà sufficiente a restituirgli il gusto di vivere. Porre fine, per sempre, a ogni tormento rimarrà per lui una tentazione troppo grande per lasciarla solo nelle intenzioni.

Corbijn ha grande rispetto per ciò che racconta e si capisce da come porta in scena la musica del gruppo, dallo spazio che riserva a ogni canzone incastrata live, per intero e a perfezione in un'opera che sussurra ciò di cui intende narrare, che non ha bisogno di caricare oltremisura una storia che trae emozione anche solo dalle dita che s'apprestano a creare arte. I numerosi primi piani appoggiano poi la carne sul nostro occhio, i corpi spezzati dalle inquadrature di Corbijn diventano una narrazione da interpretare secondo la propria sensibilità, mentre i movimenti frenetici del cantante sul palco ci ricordano l'urgenza di Ian Curtis di tirar fuori da sé i propri turbamenti attraverso la musica. Mettendo insieme i pezzi della sua vita, raccontata in modo lineare ma talmente ricca di particolari da tempestarci testa e cuore di numerosi input e stimoli, si fa finalmente la conoscenza dell'uomo dietro il mito, traendo anche da questo un motivo per riempire il nostro spirito. Non si creano facilmente queste alchimie perfette ed è ancora più difficile che certe opere così belle raggiungano le nostre sale. Bisognerebbe voler bene al cinema di qualità, perché in cambio si può ricevere tantissimo. Da Control è facile ottenere anche molto di più.