Recensione En la ciudad de Sylvia (2007)

Non un film, ma una delicata poesia, il canto dolente per una chimera, scritta con la fissità di una macchina da presa a cristallizzare gli attimi.

A Sylvia

Quegli sconosciuti che si sfiorano per caso, per un solo inafferrabile istante, e non si incontrano più. Quanti sguardi rubati per le strade del mondo, nei luoghi che ospitano i viaggiatori quotidiani, dove s'apre e muore il giorno. Ci sono vibrazioni continue nei tragitti tra le folle, tra le vie solite e quelle ignote delle città, e ciò che non può essere toccato con mano si modella nel sogno come possibilità infinite. Così quel che passa può restare dentro per sempre e il ricordo intagliare nuove illusioni, che vivono di un'agrodolce ansia, di un'immagine sola destinata a finire incorniciata dentro il cuore. L'uomo del film di Guerin si muove nella città di Sylvia cercando una donna che forse non esiste, trovandola sulle labbra, tra i capelli, negli sguardi di tutte quelle che incontra sul proprio tragitto. E Sylvia, come ogni sogno irrealizzabile, non può essere trovata, perché dimora nel corpo di tutti coloro che non sanno come lasciarsi conoscere.

En la ciudad de Sylvia non è un film, ma una delicata poesia, il canto dolente per una chimera, scritta con la fissità di una macchina da presa a cristallizzare gli attimi. José Luis Guerin riflette sul presente che sfugge, traccia le distanze tra uomo e donna (per non estenderle più in alto, ed abbracciare tutti gli esseri umani) e le scopre incolmabili: l'indifferenza offre dell'altro solo le spalle, gli occhi rivolti sempre altrove, il soffio del vento che fa ondeggiare i capelli nell'aria, rendendo quello che dovrebbe essere un animale sociale qualcosa di molto più simile ad una divinità solitaria, che non può rispondere ai nostri richiami perché non conosce altra lingua che quella dei propri bisogni. Il dramma dell'indifferenza nella malinconica opera di Guerin rivela lo squilibrio tra il guardare e l'essere guardato, tra chi sente dentro l'urgenza di un contatto con l'altro, ma è costretto a soffocarsi ed evitare l'azzardo, e chi perso dentro sé stesso non può lasciarsi afferrare, attraversare, scoprire.

Nei quadri immobili del regista spagnolo ci finiscono gli angoli della città di Strasburgo, spazi urbani che sembrano uguali a quelli che noi abitiamo e che ospitano un continuo movimento, e la confusione di corpi e mezzi di trasporto vive quella sciagura di non poter essere fermata ed indagata. Dentro il film di Guerin c'è quel tragico sfiorarsi e perdersi per sempre degli sconosciuti, i pensieri restano sigillati dentro, fuoriescono solo le emozioni fugaci e la loro scia. Tutto è lasciato al nostro sentimento, al riconoscersi nei sensi muti fotografati sullo schermo. Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Sylvia mia, direbbe il poeta. E quest'opera di contorni rubati e corpi di passaggio arriva a rassicurarci, ci ripropone le stesse traiettorie dei nostri sguardi, traccia la tortura delle loro gerarchie ed evidenzia il grande gioco del rincorrersi delle anime perse nel mondo che cercano disperatamente di ritrovarsi nello sguardo fuggevole dell'altro.