Recensione The Romanoffs: il ritorno discontinuo di Matthew Weiner

La recensione di The Romanoffs, serie antologica di Amazon ideata dal creatore di Mad Men.

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The Romanoffs: Amanda Peet, John Slattery nell'episodio Expectacion

A più di tre anni dalla conclusione di Mad Men, non è certamente un eufemismo dire che ci fosse grande attesa per la nuova serie tv di Matthew Weiner, prodotta da Amazon che ha optato per un approccio ibrido per offrire al pubblico l'esperienza di The Romanoffs: due degli otto episodi sono stati resi disponibili il 12 ottobre 2018, mentre i sei successivi sono arrivati a cadenza settimanale, fino al 23 novembre. Questo per quanto riguarda la versione originale, mentre quella doppiata, almeno in Italia, è disponibile dall'11 gennaio. Una strategia curiosa ma comprensibile, per lo meno sulla carta: il fascino delle opere di Weiner è legato in non piccola parte alle interazioni tra i personaggi, da gustare in inglese così come le ha scritte l'autore, anche per udire l'uso dei suoi dialoghi da parte di un cast internazionale di cui fanno parte anche la francese Isabelle Huppert e la svizzera Marthe Keller.

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L'altra particolarità di The Romanoffs è il format semiantologico: alcuni attori - tra cui John Slattery e Diane Lane - e i rispettivi personaggi appaiono in più di un episodio, ma ciascuna storia è un'entità a sé, legata in qualche modo alla famiglia reale russa, che si tratti di presunti discendenti (il fil rouge che lega la maggior parte delle puntate), delle riprese di una miniserie in costume (la premessa del terzo episodio) o del ruolo secondario di uno storico la cui area specialistica è appunto la famiglia in questione (Daniel Reese, interpretato da Slattery). Il tutto raccontato e girato attraverso location multiple, da New York a Parigi passando per un treno diretto a Londra, dall'Austria a Città del Messico transitando per Vladivostok. L'ambizione del progetto è visibile in ogni singola sequenza, nel bene e nel male. [N.B. questa recensione di The Romanoffs è priva di spoiler, con l'eccezione del paragrafo conclusivo appositamente contrassegnato]

Un'idea intrigante dall'esecuzione discontinua

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The Romanoffs: Corey Stoll, Janet Montgomery nell'episodio The Royal We

La serie è palesemente, innanzitutto, un monumento al potere del suo creatore e showrunner: Matthew Weiner è il regista di tutti e otto gli episodi, e di sei di questi è anche sceneggiatore o co-sceneggiatore accreditato (per gli altri due vale presumibilmente il criterio che lo stesso Weiner applicava ai tempi di Mad Men: metteva mano a tutti i copioni, ma non aggiungeva il proprio nome se nella stesura finale rimaneva più del 20% del contributo dei colleghi). Grazie al prestigio accumulato nel corso di quasi un decennio curando le vicende di Don Draper e compagnia bella, l'autore - che già all'epoca esibiva qualche segno di megalomania, facendo firmare accordi di riservatezza persino ai dirigenti del network che visitavano il set - ha ottenuto un potere contrattuale in grado di fargli realizzare ciò che voleva, senza restrizioni (e qui è stato fondamentale anche il contributo di Amazon, la cui natura di piattaforma online incide in particolar modo su questioni di censura e di durata delle storie). Tale libertà è al contempo il principale pregio e il più grande difetto dello show: se da un lato fa piacere vedere che una nuova realtà produttiva come quella dello streaming dà ai creatori la possibilità di spingersi oltre le convenzioni del piccolo schermo "normale" (emittenti cable incluse), dall'altro è innegabile che, in questo caso specifico, l'approccio di Weiner rientri con una certa prepotenza nella categoria "prendere o lasciare".

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The Romanoffs: Noah Wyle, Kerry Bishé nell'episodio The Royal We

In più di un'occasione il fulcro narrativo ed emotivo delle singole storie emerge verso la fine, una strategia di per sé comprensibile se gli eventi che ci conducono lì avessero la stessa forza drammaturgica. Così non è, e a penalizzare ulteriormente l'operazione è la durata generosa (tra i 60 e gli 80 minuti) unita ad un'assenza di trama orizzontale che in altre occasioni avrebbe reso più tollerabile l'autocompiacimento di Weiner. In questo caso, non essendoci una vera prosecuzione narrativa dal primo all'ottavo episodio malgrado la presenza di personaggi ricorrenti, le carenze a livello di scrittura e caratterizzazione (solo parzialmente compensate dalle interpretazioni degli attori) risultano particolarmente evidenti e denotano la natura dello show come quello che gli americani chiamano vanity project: un'opera indubbiamente interessante, ma segnata dall'assenza di una forza superiore (produttore, studio, network o altri) in grado di controllare gli eccessi artistici di uno showrunner ebbro di potere, il quale sicuramente si riconosce nel personaggio di Isabelle Huppert, una regista disposta a tutto pur di ottenere ciò che ritiene giusto per il proprio progetto. L'idea di base rimane interessante e nei momenti davvero riusciti c'è tanto da assimilare, ma complessivamente, dati gli artefici e la loro stazza artistico-produttiva nell'industria, abbiamo a che fare con la proverbiale montagna che ha partorito un topolino.

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Il curioso caso dell'episodio 5 (attenzione, spoiler!)

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The Romanoffs: Diane Lane, Andrew Rannells nell'episodio Bright and High Circle

Ha fatto discutere soprattutto il quinto episodio, Bright and High Circle, incentrato su un'accusa di comportamenti scorretti da parte di un insegnante nei confronti di un minore. Al di là degli squilibri strutturali di cui sopra che portano la natura dell'accusa stessa ad essere quasi un colpo di scena (unito alla rivelazione che il presunto crimine - aver dato da bere a un minorenne - era falso), la puntata intera lascia un retrogusto amaro per svariati motivi: la falsità dell'accusa, se gestita bene, poteva essere un elemento tematico potente per parlare delle complessità della gogna pubblica e mediatica al giorno d'oggi (in pratica, Il sospetto dopo l'ascesa del movimento #MeToo); peccato che tale complessità venga gettata al vento praticamente subito, dato che Weiner e i suoi personaggi si schierano immediatamente dalla parte dell'accusato, screditando le opinioni altrui e lasciando pochissimo spazio al dubbio (cosa che fa anche il film di Vinterberg appena menzionato, ma lì l'innocenza del protagonista è assodata fin dall'inizio). E dato che lo stesso Weiner, proprio mentre veniva realizzata la serie, è stato accusato di comportamenti molesti risalenti al suo show precedente e si è difeso in maniera poco elegante, l'operazione acquista un sapore ancora più sgradevole, diventando una sorta di pamphlet contro il movimento intero da parte di una persona che, per ovvi motivi, non dovrebbe esprimersi in certi termini. E questo non solo nell'episodio incriminato, dato che nella terza puntata, quella della miniserie con una regista disposta a tutto, la protagonista attrice viene sottoposta a umiliazioni di ogni genere, inclusa una violenza sessuale, per dare una performance più credibile. Certo, altrove sembrerebbe che Weiner voglia condannare i comportamenti scorretti (nel secondo episodio il marito fedifrago e aspirante uxoricida viene sconfitto fisicamente e spiritualmente, e nel finale è il figlio di un amore adultero e forse omicida a fare una brutta fine), ma è il genere di ambivalenza che dovrebbe essere all'interno della serie, non intorno alla stessa. Anche da quel punto di vista il progetto è riuscito solo a metà: se l'intento era davvero quello di mostrare più punti di vista su argomenti come la misoginia, la violenza e il pericolo dei giudizi affrettati, ciò non risulta da quanto vediamo sullo schermo.

Movieplayer.it

2.5/5