Ricordando Francesco Rosi: il cinema fra impegno civile e riflessione storica

I film di Francesco Rosi hanno rappresentato un acuto strumento di indagine sui lati più ambigui della società e della politica italiane: rendiamo omaggio alla carriera del compianto regista napoletano con un'analisi di quattro capisaldi del suo rigoroso cinema di denuncia.

"Abbiamo contribuito, con le nostre riflessioni, analisi, descrizioni di comportamenti, alla politica del paese. I governanti italiani, proprio per questo, non hanno mai amato veramente il nostro cinema e, di fatto, si sono rifiutati di aiutarlo. Eppure, esso è stato fra le poche cose valide che abbiamo esportato. Certo, un film non avrà mai le possibilità che sono proprie di altri meccanismi di persuasione. Ma esprime, se non altro, una volontà di intervenire in cose che ci riguardano da vicino. La politica la devono fare solo i politici di professione, forse? No; la dobbiamo fare tutti e spesso i cineasti, come gli scrittori, sono riusciti a precedere i politici."

Con queste parole, tratte da un libro intervista con Francesco Bolzoni pubblicato nel 1998, il grande regista napoletano Francesco Rosi definiva la propria concezione dell'importante responsabilità civile del cinema in quanto strumento 'politico', inteso come capacità di cogliere alcuni aspetti fondamentali del nostro presente e di contribuire a modellare il futuro di un paese. Un compito al quale Rosi, scomparso sabato scorso a novantadue anni di età, non si è mai sottratto, trasformandolo piuttosto in una vocazione che lo avrebbe reso, senza timore di iperboli, il massimo rappresentante del "cinema di denuncia" che l'Italia abbia mai avuto.

Festa del Cinema di Roma 2007: Francesco Rosi
Festa del Cinema di Roma 2007: Francesco Rosi

Dopo aver mosso i primi passi nel mondo del palcoscenico e della radio, Rosi era entrato nell'ambiente del cinema, poco più che ventenne, prima come assistente alla regia di Luchino Visconti per La terra trema, nel 1948, e in seguito partecipando alla sceneggiatura di Bellissima, insieme a Suso Cecchi d'Amico. Nel 1956 aveva condiviso con Vittorio Gassman la regia di Kean - Genio e sregolatezza, veicolo cucito su misura per il mattatore genovese, mentre due anni più tardi aveva realizzato il suo primo film 'individuale', La sfida, ricompensato con il Premio della Giuria al Festival di Venezia 1958. Da allora, l'attività di Francesco Rosi è stata costellata di successi e riconoscimenti, fra cui la nomination all'Oscar per il miglior film straniero del 1981 per Tre fratelli, adattamento di un racconto di Andrej Platonov, il BAFTA Award nel 1982 per Cristo si è fermato a Eboli, tratto dal romanzo di Carlo Levi, l'Orso d'Oro alla carriera al Festival di Berlino 2010, il Leone d'Oro alla carriera al Festival di Venezia 2012 e ben dieci David di Donatello (oltre alle statuette speciali). Ma per ricordare, a pochi giorni dalla sua scomparsa, il ruolo e la statura artistica di Francesco Rosi per il cinema del nostro paese, abbiamo scelto di focalizzarci su un settore peculiare della sua vasta produzione, ovvero quello relativo ai film di impegno civile, autentiche finestre sul passato e sul presente di una nazione gravida di contraddizioni; con una breve analisi di quattro pellicole che, probabilmente più di altre, hanno contribuito a rendere Rosi uno dei maestri dei quali sentiremo maggiormente la mancanza...

Salvatore Giuliano: un capolavoro fra il documentario e la fiction

Salvatore Giuliano - una scena del film di Rosi
Salvatore Giuliano - una scena del film di Rosi

Nell'ambito del cinema d'inchiesta in Italia, è difficile pensare a un film che abbia avuto un impatto altrettanto dirompente e rivoluzionario di Salvatore Giuliano, a nostro avviso il capolavoro di Francesco Rosi, il vertice destinato a restare ineguagliato. Ricompensato con l'Orso d'Argento per la miglior regia al Festival di Berlino 1962 e con il Nastro d'Argento per il miglior film, frutto di un accuratissimo lavoro di ricostruzione e di messa in scena da parte di Rosi e dei suoi co-sceneggiatori Suso Cecchi d'Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas, Salvatore Giuliano rievoca uno dei più celebri casi di cronaca del decennio precedente: la morte, il 5 luglio 1950, nella cittadina siciliana di Castelvetrano, del famigerato bandito Salvatore Giuliano, appena ventisettenne, ritenuto il principale responsabile della strage di Portella della Ginestra, tre anni prima, e rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con i Carabinieri.

Ma chi era veramente Salvatore Giuliano, e quale la sua posizione all'interno dello scenario politico e sociale dell'Italia del secondo dopoguerra? A partire da questo interrogativo, Rosi costruisce un meccanismo narrativo assolutamente senza precedenti nel nostro cinema, e che rimarrà da esempio per molti cineasti a venire: una 'indagine' ad ampio raggio che frantuma la linearità cronologica per incasellare con sapienza flashback e filmati d'archivio, fino ad arrivare al processo e alla morte del braccio destro di Giuliano, Gaspare Pisciotta, in un magistrale amalgama fra il documentario e la fiction (eccezionale, in tal senso, anche il lavoro del montatore Mario Serandrei). Rosi, ben lontano da intenti illustrativi o didascalici, compie una drastica demitizzazione della figura del bandito, che compare sullo schermo soltanto come un corpo senza vita, e procede invece a scandagliare in profondità il contesto entro il quale si sviluppò la parabola di Giuliano: in particolare, quel tenebroso intreccio fra politica, finanza e criminalità che costituì (costituisce?) una delle fasi essenziali della "trattativa" tra Mafia e Stato. Al di là dell'analisi sulla recente storia italiana, Salvatore Giuliano si propone così anche e soprattutto come un'opera sull'inestricabile complessità del reale, sottoposto a menzogne, distorsioni e insabbiamenti.

Le mani sulla città: politica e malaffare, ieri, oggi e domani

Rod Steiger in una scena di Le mani sulla città
Rod Steiger in una scena di Le mani sulla città

Appena un anno dopo Salvatore Giuliano, e replicando in parte l'impostazione della pellicola precedente, Francesco Rosi firma un'altra opera canonizzata come una delle pietre miliari del cinema italiano degli anni Sessanta: Le mani sulla città, accolto da un caloroso entusiasmo al Festival di Venezia 1963, tanto da aggiudicarsi il Leone d'Oro come miglior film. Un autentico atto d'accusa, lucidissimo e rigoroso, all'indirizzo delle losche connivenze fra la politica e il potere finanziario, per il quale Rosi poté contare perfino su un grande attore americano: Rod Steiger, impiegato nel ruolo di Edoardo Nottola, spregiudicato impresario edile legato agli ambienti della destra e determinato a farsi leggere assessore all'edilizia di Napoli. I progetti di Nottola, che mira a far costruire nuovi caseggiati traendo lauti vantaggi dalle speculazioni edilizie, si incrinano però quando le insufficienti condizioni di sicurezza di un cantiere provocano il crollo di una palazzina in un quartiere popolare, e nell'incidente rimane coinvolto un bambino. Il disastro costringe il Consiglio Comunale ad istituire una commissione d'inchiesta, ma questo non frenerà le ambizioni politiche di Nottola...

Una scena di Le mani sulla città
Una scena di Le mani sulla città

Con una struttura drammaturgica più lineare rispetto a quella di Salvatore Giuliano, ne Le mani sulla città Rosi punta la sua attenzione sui meccanismi più torbidi e ambigui del potere; in maniera forse più 'scoperta' rispetto all'altro suo capolavoro, ma con indubbia efficacia e senza mai scivolare nella retorica. Grazie ad una formidabile sceneggiatura scritta insieme a Enzo Forcella, Raffaele La Capria ed Enzo Provenzale e al vivido ritratto del protagonista offerto da Steiger, Le mani sulla città si attesa fra gli esempi più alti di cinema di denuncia, in cui la politica viene dipinta come un sistema dominato unicamente da opportunismi, interessi personali e subdole strategie. La didascalia conclusiva del film recita: "I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce". Una realtà che, mutatis mutandis, ci si ripropone anche a mezzo secolo di distanza, con gli scandali legati a "Mafia Capitale": l'ennesima testimonianza di come il cinema di Rosi non abbia perso un grammo della propria attualità.

Il caso Mattei: anatomia di un omicidio

Gian Maria Volontè ne Il caso Mattei
Gian Maria Volontè ne Il caso Mattei

Dopo Salvatore Giuliano, è un altro mistero insoluto della storia italiana ad essere sottoposto all'obiettivo di Francesco Rosi: la morte di Enrico Mattei, fondatore e Presidente dell'ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), ucciso il 27 ottobre 1962 in un attentato, quando l'aereo a bordo del quale si stava recando a Catania esplose poco dopo il decollo da Milano, precipitando nei pressi di Pavia. Una figura chiave della finanza e della politica nell'Italia del dopoguerra, la cui problematica vicenda viene ricostruita da Rosi e dal suo co-sceneggiatore Tonino Guerra in un altro, irrinunciabile caposaldo nella produzione del regista: Il caso Mattei, in cui a prestare il volto ad Enrico Mattei è uno straordinario Gian Maria Volonté, in una delle sue prove più alte. E ancora una volta, l'approccio adottato da Rosi nell'accostarsi alla materia narrativa risulta incredibilmente abile per la sua capacità di intessere sequenze di repertorio, interviste, testimonianze dirette e scene girate ex novo: un altro, superbo punto d'incontro fra documentario e cinema di finzione, in grado di delineare un ritratto composito di una personalità che non esitò a scontrarsi con i poteri forti.

Rosi, infatti, pone l'accento sulla lotta di Enrico Mattei al fine di mettere in pratica una strategia energetica che potesse rafforzare l'AGIP, grazie ad un accurato sfruttamento del petrolio e del metano, e sul suo braccio di ferro con le cosiddette "sette sorelle", vale a dire le grandi compagnie petrolifere legate agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, con le quali Mattei intraprese una guerra aperta nell'intento di sottrarre loro il monopolio sulla fornitura di energia nell'Europa occidentale. Sorretto dalla carismatica presenza scenica di Volontè, Il caso Mattei conquista la Palma d'Oro come miglior film al Festival di Cannes 1972, in un clamoroso ex aequo con un'altra pellicola italiana, La classe operaia va in paradiso di Elio Petri (curiosamente, anch'essa con protagonista Gian Maria Volontè). L'indagine sulla morte di Mattei, archiviata inizialmente "perché il fatto non sussiste", fu riaperta nel 1997, fino ad arrivare alla conclusione che l'aereo su cui viaggiava il Presidente dell'ENI fu effettivamente distrutto in un attentato, e non per un semplice incidente, benché i mandanti dell'omicidio Mattei rimangano tuttora ignoti.

Cadaveri eccellenti: un giallo senza soluzione

È il 1976 quando, al culmine dell'atmosfera di tensione degli "anni di piombo", mentre all'orizzonte si profilano il tramonto dello strapotere della Democrazia Cristiana e la necessità di raggiungere nuovi compromessi, Francesco Rosi porta al cinema il romanzo di uno dei massimi scrittori italiani del Novecento, Il contesto di Leonardo Sciascia, adattato per il grande schermo insieme a Tonino Guerra e Lino Iannuzzi. Cadaveri eccellenti, che ottiene due David di Donatello per miglior film e miglior regia, costituisce una delle più pregevoli trasposizioni dell'opera di Sciascia, autore che in quel periodo stava sperimentando una grande fortuna al cinema: A ciascuno il suo di Elio Petri, Il giorno della civetta di Damiano Damiani, Un caso di coscienza di Giovanni Grimaldi e (nello stesso anno di Cadaveri eccellenti) Todo modo, sempre per la regia di Petri, e Una vita venduta di Aldo Florio. A differenza degli altri titoli analizzati in questo articolo, Cadaveri eccellenti si distingue per il definitivo distacco dall'influenza del documentario e del film d'inchiesta, per appropriarsi invece della struttura del giallo a sfondo politico allo scopo di restituire uno spaccato dell'Italia dell'epoca, immersa in un clima di sospetto e di paranoia.

Max von Sydow in Cadaveri Eccellenti
Max von Sydow in Cadaveri Eccellenti

Il raggelante incipit del film ha luogo all'interno della cripta del convento dei Cappuccini di Palermo, dove un giudice rivolge un silenzioso sguardo alla parata di scheletri che si profilano davanti a lui; poco dopo, all'uscita del convento, l'uomo sarà freddato da alcuni colpi di pistola. È l'inquietante apertura di un atipico poliziesco in cui il detective di turno, l'ispettore di polizia Amerigo Rogas (Lino Ventura), viene inviato da Roma per indagare su una serie di delitti di magistrati: il crimine di un ex galeotto assetato di vendetta o i tasselli di un complotto eversivo che potrebbe coinvolgere addirittura le alte sfere della politica? Mentre l'ispettore Rogas si addentra in un mistero sempre più cupo e inestricabile, le sue indagini lo condurranno al cospetto dell'ambiguo Ministro della Sicurezza, impersonato da Fernando Rey, e di Riches, Presidente della Corte Suprema, il quale teorizza l'infallibilità della giustizia, assimilabile quasi ad una liturgia religiosa: una tenebrosa eminenza grigia per il cui ruolo Rosi si avvale di uno dei più leggendari interpreti del cinema mondiale, Max von Sydow, capace di lasciare il segno pur con un'unica, indelebile sequenza.