Il cinema italiano è pronto a cambiare? Ecco le inaspettate risposte

Un'analisi su quanto è stato dichiarato dagli addetti ai lavori durante l'UltraPop Festival: i registi sentono la chiamata a un cambiamento nel cinema italiano, ma cosa ferma la rivoluzione?

Freaks Out: una foto dei protagonisti
Freaks Out: una foto dei protagonisti

"Eppur si muove!". È questa la frase di galileiana memoria che ci viene spontanea dopo aver concluso un viaggio lungo il corso dell'UltraPop Festival che, attraverso vari panel che hanno potuto contare sulla partecipazione di tante personalità di spicco del cinema italiano, ha portato alla luce, per bocca degli stessi ospiti, una fotografia della nostra industria cinematografica ben diversa da quello che sembra essere il pensiero comune. Perché si parla spesso di un cinema nostrano fermo, bloccato in due modelli produttivi (il dramma "borghese" e la commedia) e incapace di sperimentare nuove vie; si spera sempre in un ritorno del cosiddetto "cinema di genere" che sembra affacciarsi timido ad annate alterne per poi nascondersi nuovamente nell'ombra, continuando a trovare giustificazioni ormai troppo abusate per essere credibili: a volte è colpa del pubblico che rifiuterebbe un altro tipo di cinema, a volte è colpa dei troppi soldi che servirebbero per produrre film "nuovi".

Si ha, quindi, una visione avvilente del cinema del nostro Paese a cui molti si riferiscono come a un mondo con poche forze vitali inattivo, in coma e senza tanta volontà di rianimarlo. Nulla di più distante dalla realtà: dagli attori più giovani come Davide Calgaro a quelli più conosciuti come Stefano Fresi fino a toccare registi esordienti come Roberto De Feo e quelli ormai affermati come i Manetti Bros (che comunque nel genere si sono sempre riconosciuti) la voce sembra una sola: vogliamo che le cose cambino e il cinema italiano è pronto al cambiamento. E allora, se è vero che le cose si stanno muovendo, cosa sta fermando questa rivoluzione?

Il coraggio della produzione

Il Primo Re 3
Il Primo Re: Alessandro Borghi, Tania Garribba, Alessio Lapice in una scena

È chiaro che per arrivare a vedere in sala un film di genere ci sia bisogno di una produzione che abbia il coraggio di finanziarlo. Coraggio che, negli ultimi anni, salvo rari casi, è sembrato mancare per prediligere una sicurezza di ritorno economico che, però, si tramuta in una scarsa eterogeneità nella proposta. Esperimenti coraggiosi che alcuni film usciti in breve tempo qualche anno fa (parliamo di Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Smetto quando voglio di Sydney Sibilia e Veloce come il vento di Matteo Rovere) sembravano far presagire l'inizio di una rinascita del cinema di genere mai realmente avvenuta. Perché la sensazione che si ripropone, ogni qual volta si parla di "rinascita" o si assiste al caso particolare di un titolo che sembra oltrepassare i paletti del canone prestabilito, è quella di una novità che si presenta, spaventa e viene velocemente soffocata sul nascere. Il risultato è una sconfitta per tutti. Invece, l'industria cinematografica dev'essere un cuore pulsante. "C'è bisogno di tutto, anche di pluralità di generi" ci dice Stefano Fresi, per poi proseguire: "C'è bisogno da parte delle produzioni del coraggio di produrre, ad esempio, un giovane regista che decide di realizzare un western nel 2020. È solo un atto di coraggio". Anche Gabriele Mainetti, durante il panel a lui dedicato, ha sottolineato come "La produzione è l'unico agente che può salvare il film. Molti produttori, invece, frenano e tagliano le tue idee". A questo proposito Roberto De Feo, regista dell'horror The Nest, film che, per sua stessa ammissione, non è la sua pura visione originale e che è andato incontro a qualche aggiustamento voluto dai produttori, è parecchio critico: "I produttori che hanno voluto affrontare il genere cercano di imitare i film di successo prodotti in altri Paesi perché cercano, giustamente, un ritorno economico sicuro. Si è costretti a stare dentro dei limiti e a procedere per piccoli passi perché certe cose in Italia ancora non le puoi fare". Chiaro che le novità comportano un certo grado di rischio, soprattutto economico, ma il sentimento comune, da parte di tutte le personalità dello spettacolo ospitate nel corso dei vari panel del festival, è che questo sia un rischio che bisogna correre anche a costo di fallire.

Gabriele Mainetti: "il mio prossimo film forse sarà un horror"

"Troppo italiano" o "troppo poco" italiano?

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Curon: una suggestiva immagine della serie

"L'Italia viene da anni di carenze sul cinema di genere, ma dobbiamo quantomeno provare a mantenerci al passo con gli altri Paesi". Una frase che potremmo aver sentito molte volte tanto da non farci quasi più effetto, ma che colpisce con una forza inedita e inaspettata se a pronunciarla è uno degli attori più giovani sulla cresta dell'onda come Davide Calgaro, nel cast di Sotto il sole di Riccione, film Netflix che corrisponde a un esempio di un certo modo un po' - passateci il termine - "conservatore" di approcciarsi alla commedia. E proprio una piattaforma streaming come il colosso Netflix ci porta a paragonare i prodotti nostrani con il coraggio di certe produzioni internazionali di successo come Dark o La Casa di Carta, che hanno fatto presa in maniera eclatante anche nel nostro Paese, anche in misura nettamente superiore rispetto alle produzioni nostrane come Luna Nera o Curon. Proprio la giovane attrice della serie Netflix, Margherita Morchio, non ha dubbi in proposito: "Oltre che essere una sfida stimolante per molti attori, credo che noi italiani siamo perfettamente in grado di raccontare storie di questo tipo" facendo riferimento anche alla forte tradizione folkloristica della nostra penisola. Una sfida per non sfigurare con le produzioni estere che, però, porta a un dilemma ancora insoluto: la chiave del successo di un'opera di genere sta nella sua "italianità" o nella sua "internazionalità"? Deve essere un prodotto italiano riconoscibile o deve mascherarsi assomigliando ai prodotti di altre cinematografie? Chi prende il giudizio "Sembra un film americano" come un complimento è Jacopo Rondinelli, regista di Ride, un film girato completamente con le go-pro: "Al di là che possa piacere o meno, è la dimostrazione che certe cose si possono fare grazie al coraggio e alle maestranze giuste. E alla fine questi prodotti vengono anche esportati con successo". Dello stesso parere anche Fabio Guaglione, produttore di Ride e regista di Mine: "E' un commento che trovo positivo se si riferisce al lato tecnico, ma spesso ci si dimentica che è stato realizzato da italiani. Noi potremmo fare film di genere molto più economici rispetto a quelli americani e, di conseguenza, potremmo anche prenderci più rischi dando vita a idee molto più originali. Sono il primo a dire che si possono fare molte storie di genere ancorate all'Italia, però questo non deve nemmeno diventare una gabbia. Se mi venisse l'idea di una storia che parlasse di una rapina a Boston non posso realizzarla perché Boston non fa parte della mia cultura?".

Lo chiamavano Jeeg Robot e la rinascita del cinema di genere italiano

E il pubblico è pronto per il cambiamento?

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Il nido: un'immagine del film

Quando si parla di cinema di genere italiano si usa spesso il termine "rinascita" che mette in risalto una triste verità: era un cinema che esisteva e che poi è sparito lasciando il pubblico disabituato a un certo tipo di prodotto. Come ben sappiamo, l'industria cinematografica fiorisce se è per primo il pubblico a premiare i rischi che la produzione decide di correre: "C'è bisogno di farlo, il cinema, ma c'è anche bisogno di andarci al cinema", per citare Stefano Fresi. E proprio il pubblico, forse, è lo scoglio maggiore con cui l'industria deve scontrarsi. Ne sa qualcosa De Feo che ha visto il suo film essere distribuito in piena estate, a ferragosto: "In Italia il pubblico che va al cinema a vedere un film horror italiano entra in sala con un sacco di pregiudizi. Non posso dar loro torto perché questi trent'anni di nulla hanno rivoltato il pubblico contro il film horror italiano. Il pubblico è sfiduciato, non è abituato". Eppure proprio il successo di certi prodotti esteri presenti sulle piattaforme streaming dovrebbe aver abituato gli spettatori ad abbracciare thriller, horror o action, tant'è che Paola Barbato, scrittrice di genere famosa sia per i romanzi che per le sue storie su Dylan Dog, non ha dubbi in proposito: "Il mercato si crea. Non è vero che il pubblico non è pronto perché i prodotti degli altri li guardiamo". Interessante trovare lo stesso pensiero in Sabrina Martina, giovanissima attrice classe 1999: "Sono convinta che al pubblico piaccia il genere e noi siamo totalmente in grado di farlo". Forse, allora, bisognerebbe riconsiderare l'approccio al genere cercando di asciugare tutta l'autorialità presente, in maniera più o meno preponderante (pensiamo agli ultimi film usciti nell'ultimo anno come Il primo re, 5 è il numero perfetto, Pinocchio e su cui abbiamo già dedicato un approfondimento in merito) mantenendo intatto, invece, quel piacere della visione che possa riformare un pubblico scevro da pregiudizi. La difficoltà maggiore sembra quella di dover ricominciare da zero un lungo e faticoso percorso che tocca sia il lato produttivo che quello distributivo, che deve soddisfare l'industria e il pubblico novizio.

Oltre il genere, evviva il cinema!

Mine: Armie Hammer in una scena del film
Mine: Armie Hammer in una scena del film

"I film di genere non dovrebbero esistere". Una frase che sembra un fulmine a ciel sereno se a pronunciarla è uno dei registi che più ha toccato il genere nel corso della sua ormai lunga carriera come Marco Manetti, regista insieme al fratello Antonio di film come Zora la vampira, Ammore e malavita e del prossimo Diabolik. Proprio quest'ultimo film potrebbe capovolgere lo status quo dell'industria: con la data d'uscita fissata al 25 dicembre 2020, Diabolik ha preso il posto non scontato di film di punta della stagione natalizia, slot spesso occupato dalle più sicure commedie. Il 31 dicembre uscirà anche Freaks Out, secondo atteso film di Gabriele Mainetti che ha dichiarato di essere estraneo a tutto il mondo nerd che invece sembrava filtrare da Lo chiamavano Jeeg Robot. Una scelta distributiva senza dubbio coraggiosa e che sembra premiare la voglia di credere in un cinema italiano diverso e fresco. Forse, allora, il problema non sta tanto nel genere di per sé, ma nella voglia di dar spazio a voci nuove: "A me piacerebbe rigirare questa ossessione del cinema di genere, che è un problema solo italiano, e parlare di "storie", noi registi dovremmo soltanto pensare a intrattenere il pubblico coi nostri film e farlo divertire, divertendoci" prosegue Marco Manetti: "Credete che gli americani si pongano il problema di dare un genere agli Avengers e ai film della Marvel? A loro non interessa se è fantasy o altro, loro realizzano il film e basta. Al cinema, le storie sono più importanti del genere". Sembra che il cinema italiano sia pronto a cambiare o, per lo meno, sembra che ci sia una volontà generale al rinnovamento da parte degli addetti ai lavori. I produttori dovrebbero cavalcare l'entusiasmo generale e rischiare di più anche a costo di non vedere nell'immediato i frutti delle loro decisioni audaci, ma anche noi spettatori abbiamo la responsabilità di credere maggiormente in progetti che fuoriescono da quello che consideriamo la nostra comfort zone. Perché, per tornare al paragone iniziale, se consideriamo il cinema come un pianeta vivente, è bene ricordare che la bellezza è data dalla varietà degli elementi, dall'eterogeneità, dalla diversità. Un mondo composto da vite esclusive e poche sicure certezze è un mondo povero.

Manetti Bros: come misurarsi col cinema di genere e vivere felici