Enzo Avitabile racconta la sua vita dedicata alla musica

Una chiacchierata con l'artista partenopeo, protagonista con la sua vita e la sua musica del documentario Enzo Avitabile Music Life di Jonathan Demme in sala il 18 e 19 Novembre.

Ci sono artisti che non sono facili da definire, perché loro stessi fanno di tutto per sfuggire le etichette ed i confini predefiniti dei generi. Personaggi che non appaiono sulle copertine, che fanno sì che a parlare sia la loro arte. Lo fa Enzo Avitabile nel documentario di Jonathan Demme presentato all'edizione 2012 della Mostra di Venezia ed in sala il 18 e 19 Novembre 2013 per la distribuzione di Microcinema dopo una suggestiva anteprima a Lampedusa il 15 Novembre seguita da una performance dal vivo alla presenza della popolazione e delle istituzioni, un cameo per testimoniare di persona l'arte presente nel film. Una partecipazione che l'artista ci tiene a definire come "un regalo, un benvenuto, a quelli che arrivano nella nostra terra attraverso l'acqua. Tutti i suoni del mondo che omaggiano i colori del mondo, le razze, tutte, che cantano un inno che testimonia come ci sia un'unica razza, che è quella umana. "
Enzo Avitabile Music Life segue la musica dell'artista partenopeo ed attraverso di essa la sua arte e la sua musica originale e creativa, offrendoci lo spaccato di un musicista che vive la sua arte con grande dedizione ed approfondimento. Aspetti che abbiamo approfondito nella nostra conversazione con l'artista che ne è ispirazione e protagonista.

Prima di tutto ci racconta come è nato l'incontro con Jonathan Demme e poi l'idea di fare un film insieme?

Jonathan ascoltò una notte da una radio di New York alcune cose mie. Appuntò il nome velocemente e cominciò a fare una ricerca. In occasione del Napoli Film Festival chiese un incontro con me ed io andai volentieri. E scoprii che erano già un paio di anni che ascoltava la mia musica. Da questo nacque l'idea, o meglio mi propose lui, di fare un docu-film sulla mia vita-musica, cioè la mia vita attraverso la musica e la mia musica attraverso la mia vita.

Lei è un artista che non è mai stato confinato in un genere, che ha sempre cercato di andare oltre gli steccati culturali e di genere. Pensa che il film di Demme rispecchi questo aspetto, ovvero si ritrova rappresentato sia dal punto di vista personale che artistico?

Certamente, ho vissuto la mia musica così come ho vissuto la mia vita. A dire la verità penso che qualsiasi musicista dovrebbe vivere la vita così, senza prigioni e senza gabbie. Il genere è una sorta di sovrastruttura che si crea e ci sono cose che ripeto sempre: la gente dice che il suono psichedelico è il genere di Jimi Hendrix, ma io penso che sia lui ad aver inventato quel suono; il reggae non è il genere di Bob Marley, è lui ad essere il reggae. Un artista dovrebbe incarnare la musica ed in questo senso sei tu a diventare il genere. Bisogna andare avanti da questo punto di vista, progredire: mai più prigioni, perché la musica non è una prigione. Siamo abituati a darci noi stessi un genere, perché diventa l'elemento che ci rende riconoscibili. Soprattutto nella musica pop, quando fai un pezzo di successo e pensi di aver trovato una formuletta e pensi che quella non devi perderla mai, altrimenti la gente non ti riconosce. Esattamente il contrario di quello che dovrebbe essere la musica.

Anche Jonathan Demme è un artista che non lavora in schemi ben delineati, pensa che sia questo suo atteggiamento nei confronti del cinema ad aver creato la sintonia tra di voi?

Sì, penso di sì. Jonathan è una persona molto aperta, che per esempio ti permette di testimoniare e ricordare dettagli come le oltre trecento partitura di musica scritta che esistono a casa mia. Altrimenti in Italia è facile essere etichettati come quello di Soul Express o quello che ha suonato con James Brown, dopo una vita di lavoro e di ricerca. Anche Jonathan è alla ricerca della non-gabbia e lavora al di fuori della priogione, è uno che va a ruota libera nell'arte, che prende spunto dal teatro, fotografa il teatro e la musica live, passa da una situazione all'altra senza alcun tipo di schema.

E' vero che lei è stato definito "Artista ingestibile" dalla sua casa discografica per essersi rifiutato di partecipare al Festival di Sanremo? Che influenza ha avuto sulla sua carriera?

Sì, è vero, mi hanno definito ingestibile perché non ho accettato di fare Sanremo. Non l'ho fatto per snobismo, ma perché per farlo devi sottostare a determinare regole e schemi che non rispecchiano la mia idea di musica. Devi comporre una canzone con determinate caratteristiche e finisci per snaturarti per ottenere visibilità. Oggi forse accetterei, perché dopo tanti anni di carriera potrei riuscire ad ottenere un maggior livello di libertà.

Nel docu-film, sullo sfondo della sua vita, appare anche un'immagine di Napoli diversa dal solito. Come siete arrivati a questo risultato?

Quello che si vede è Marianella, nella Napoli nord, dove sono cresciuto, con tutti quei personaggi che hanno accompagnato la mia vita e che ci hanno accolti facendoci sentire a casa. E' una terra che non definisco povera ma a svantaggio, perché non credo che esistano terre povere ma c'è qualcuno che le rende così. Non mi piace dire emarginati, è un'area che accoglie una serie di fuori-di-vista, ovvero tutte quelle persone di tutti i giorni che non fanno notizia. E' una zona usata o per notizie di violenza o come elemento folcloristico di basso livello culturale, ma a me piaceva l'idea di rappresentarla per quello che è, per come la conosco: una terra in cui sono nato, sono nato come musicista, una terra semplice popolata di gente di tutti i giorni che crede nei sogni e nelle probabilità. Il film di Jonathan è anche questo, un sogno ed una probabilità, ma è anche il premio per il tanto lavoro e la tanta ricerca fatta in tutti questi anni da musicista insieme al mio produttore Andrea Ragusa, con cui abbiamo iniziato questo importante lavoro di recupero dell'identità culturale e di suono. E noi abbiamo portato in questo film tutti i nostri grandi amici della World Music: Eliades Ochoa di Buona Vista Social Club, Amal Murkus dalla Palestina, Daby Touré dalla Mauritania, i grandi Trilok Gurtu e Trio Drivan Gasparyan, Gerardo Núñez, Hossein Alizadeh, Ashraf Sharif Khan, Naseer Shamma. I suoni del mondo che vivono la voglia e la volontà di unirsi e creare un nuovo suono che prescinde sè stesso perché vive ogni giorno. La World Music vive ogni giorno, non riesci mai a codificarla.

Ci sono momenti delle riprese e delle esibizioni del film che ricorda particolarmente? Esibizioni che sono risultate diverse da come avevate previsto?

Di solito i miei dischi sono così: deve essere buona la prima. Perché c'è una preparazione preliminare all'esibizione, ma al momento di suonare deve essere buona la prima. Francamente, quando c'è una registrazione, anche in studio, può essere buona la prima, la seconda, ma poi basta, perché altrimenti perdi quel calore. In questo caso i musicisti erano in grandi, l'idea era chiara, quindi sempre buona la prima, vera, creativa ed anche inaspettata. Perché abbiamo suonato cose che esattamente un minuto prima durante le prove non avevamo previsto.

Quindi ci sono molte cose che sono nate in modo spontaneo?

Sì sì, quasi tutto è spontaneo. Chiaramente non è uno spontaneo improvvisato, nel senso che quei brani erano la guida ed il canovaccio. D'altra parte sono tra i più grandi musicisti al mondo. Nessuno può discutere artisti come Trilok Gurtu o Gerardo Núñez.

A parte l'aspetto musicale, ci sono aneddoti più personali che ricorda del periodo delle riprese?

Dal punto di vista musicale c'è poco da dire, perché sono delle session precise in una location straordinaria. Per strada invece ci sono stati degli eventi quasi tutti imprevedibili: il ritorno a Marianella, l'inserimento della mezza signora che in realtà mi ha cresciuto, perché è un'amica di famiglia che conserva una serie di ricordi, ma tutti gli incontri avvenuti per strada che hanno testimoniato il rapporto tra me, la mia musica e la mia terra. Questo mi è piaciuto molto, perché è venuto spontaneo e quindi Jonathan ha potuto cogliere quello che era la mia vita tutti i giorni e la mia musica tutti i giorni.

Ed il film è riuscito perché questi aspetti, ovvero la spontaneità ed il rapporto tra lei e la sua terra, appaiono evidenti.

E' bravura di Jonathan, perché io dico da sempre di aver fatto un film senza che me ne accorgessi.

Ed è un'esperienza, quella di lavorare per il cinema, che le piacerebbe ripetere?

Certo, mi piacerebbe perché è un'esperienza che mi ha arricchito e mi è piaciuta. E conoscere nuove cose è importante per uno che fa musica.

Anche lavorare ad altre colonne sonore? Con autori in particolare?

Sì, mi piacerebbe molto, soprattutto per un film di Jonathan. Intanto ho fatto un lavoro che mi ha gratificato molto, le musiche per Orchidee di Pippo Delbono, e con lui stiamo progettando un'opera diciamo sinfonica, ma comunque contemporanea, per grande orchestra e coro polifonico. E spero di continuare a lavorare con lui, perché trovo uno dei nostri maestri del linguaggio, uno dei pochi artisti che abbiamo in Italia e che, come capita a tanti, finisce per essere più conosciuto ed apprezzato all'estero.