Vivere resistendo: il cinema di Clint Eastwood

A ottanta anni appena compiuti Clint Eastwood ha ancora moltissimo da dire e insegnare. Memoria vivente del miglior cinema americano, in lui ne risplendono la storia e i valori, aggiornati da una sensibilità crepuscolare e analitica. Che concede sempre meno al mito però.

Ottant'anni, un centinaio di interpretazioni, trentadue regie, diciassette colonne sonore. Raccontare Clint Eastwood scongiurando sé stessi e i lettori da una fluvialità stucchevole è compito difficile. Per la mente e per il cuore. Non si tratta solamente di affetto o di un generale senso di referenza per un personaggio di tale portata, quanto della difficoltà di discernere, con arbitrio e con formule discorsive efficaci, un sentiero, una strada, un percorso privilegiato da cui raccontare una produzione sterminata per quantità e importanza. Fuori dagli stereotipi, dall'agiografia o anche dall'opposizione cieca e pregiudiziale verso un uomo che ha dedicato la sua vita al cinema. E se le premesse sono sempre intrinsecamente ridondanti, e autoreferenziali, a volte aiutano a sfuggire dalle trappole più insidiose. Perché raccontare Eastwood nel 2010 come l'uomo col cappello e il sigaro inventato da Sergio Leone, o come l'uomo dal grilletto facile dei noir di Don Siegel (con cui in realtà scriverà pagine di grande cinema), come espressione simbolica dell'America repubblicana o come autore classico, dalla vecchiaia prolifica e prodigiosa, oltre ad essere volgare e sminuente, non ha più alcun senso. Nemmeno nel più ritrito cappello dell'articolo di costume.

Meglio allora partire dalla conclusione. Non strettamente temporale. Più facile trovare in Gran Torino un punto di arrivo. Fermare la memoria a uno struggente e inequivocabile testamento etico dell'icona Eastwood e del suo percorso autoriale, piuttosto che rintracciare schematici paletti a un concetto - quello di autorialità appunto - che non può discernere da una visione di insieme. Non si tratta di pruriti strutturalisti ma di impossibilità di imporre tappe temporali a un percorso complesso e stratificato, molto più di quanto spesso appaia. Non si avrebbero d'altronde gli strumenti adeguati per interpretare ad esempio l'Eastwood straordinario di Bird, capace di raccontare Charlie Parker con una lucidità e un rigore preziosissimi, schivando tutte le anguste trappole del biopic sull'artista maledetto. In Bird si rifugge dalla didascalia e si respira l'aria fumosa della rivoluzione jazz, l'amore per la musica di Clint Eastwood. E quando un Charlie Parker strafatto interroga Gillespie, nel cuore della notte, sul segreto della sua sobrietà, si sente rispondere che la sua professionalità è l'unico strumento politico per non essere lo schiavo dell'immagine che i bianchi hanno dei neri. Praticamente, in una sequenza Eastwood manda già all'aria tutta la carta straccia scritta sul suo conto. Ma anche l'idea superficiale che tutta la sua produzione precedente a Gli Spietati, sia di scarso interesse (per quanto obiettivamente minore) e fatta di alcuni western derivativi e script costruiti intorno all'immagine da duro silenzioso cucitagli addosso dai suoi ruoli più celebri. Perché a fianco dei vari Lo straniero senza nome, Il Texano dagli occhi di giaccio e L'uomo nel mirino, Eastwood apre al suo lato più nostalgico con Honkytonk Man, getta una pietra tombale sul suo Callaghan con Coraggio fatti ammazzare e rilegge con Bronco Billy il mito del west con un'ironia beffarda, presentando un elemento sotterraneo e spesso poco esplorato del cinema del regista americano, almeno fino a Space Cowboys, altro film ampiamente sottostimato. Ma soprattutto si racconta attraverso gli splendidi ruoli in La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel e Una calibro 20 per lo specialista di Michael Cimino, film che non stonerebbe minimamente tra le regie di Eastwood.
Quello che però prende davvero corpo solo nel corso del tempo, nel cinema del regista americano, garantendone la sua grandezza assoluta, è quel carico di pressioni, violenza, rinunce e ferite che animano il percorso biografico dei suoi personaggi da Gli Spietati a Un mondo perfetto, da Mystic River (che segna l'apice della disillusione e dell'impotenza per le possibili tragedie della vita) a Million Dollar Baby, fino a finire con Gran Torino che chiude i conti con il rapporto tra passato e presente, negandosi fisicamente a una contemporaneità che Eastwood rifiuta e non capisce, ma che si ostina a interrogare. Il miglior cinema di Eastwood è alimentato dalle sue domande e dalla sua curiosità su temi semplici e allo stesso tempo insondabili come la religione, il potere, gli uomini e le donne, la guerra, l'onore e soprattutto l'etica: la scintilla fondativa del suo percorso autoriale. Il cinema etico del regista è d'altronde anche il motivo principale dell'atteggiamento pregiudiziale di molta critica che ne banalizza gli argomenti, ossessionata dalla presunta schematicità manichea del suo cinema. Quel patrimonio narrativo e stilistico di chiaro rimando al passato che l'altra parte della barricata invece appunta come classicismo. Basterebbe probabilmente scendere dalle trincee e saper riconoscere come per Eastwood - e pochissimi altri oramai - si può ancora pensare alle cose e al mondo attraverso il cinema e il suo linguaggio. Attraverso i suoi tempi e i suoi luoghi. Mai con un accumulo indiscriminato. Con il valore di una musica, di un primo piano, di un campo lungo o di un fuori campo. Come quelli infiniti che abitano Million Dollar Baby, dove il dilemma morale è solo il tessuto dove si da forma alla vita e alla morte, senza che il rimpianto scompaia mai definitivamente dall'orizzonte. Come anche in un Un mondo perfetto dove la fuga disperata di Kevin Costner non ha mai il sapore retorico della redenzione, ma la certezza della fine e della perdita della libertà, ferito e appoggiando su un albero, probabilmente intento a farsi le stesso domande di Eastwood sul senso della vita. O come ne I ponti di Madison County, dove Eastwood annulla il sentimentalismo facile del best seller da cui è tratto, trasformando la materia melassosa in una romantica ballata sulle occasioni perse che ha il respiro del western e il gusto agrodolce del miglior melodramma.
Clint Eastwood è la memoria vivente del miglior cinema americano perché in lui ne risplendono la storia e i valori, aggiornati da una sensibilità crepuscolare e analitica. Che concede sempre meno al mito però. Da una parte una riflessione profonda sul potere e sulla società americana, raccontata in particolare da un pugno di opere degli anni '90 come Potere assoluto, Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Fino a prova contraria, Debito di sangue, raramente citate tra i titoli più rappresentativi del regista americano. Il primo fornisce spunti di grande interesse sia per come sviluppa il discorso sulla malignità e la falsità del potere, sia per la volontà chiara di affidare allo sguardo del cinema la ricerca della verità. Come anche in Debito di sangue che parallelamente affronta un'altro dei nuclei centrali di quasi tutta la filmografia di Eastwood nella quale compare anche come attore, ovvero il lavoro di destrutturazione della sua icona rappresentativa. D'altra parte uno sguardo sul passato depurato dai filtri della retorica come nel fondamentale Gli Spietati, dove l'epopea del western viene demolita e privata della figura di qualsiasi eroe (positivo o negativo) a favore di una lettura nera dell'epica americana, fatta di violenza, prevaricazioni e ingiustizia. Riflessioni che in forma diversa tornano anche in Flags of Our Fathers, che rimane però (a differenza del suo straordinario contraltare Lettere da Iwo Jima) davvero l'unico film non riuscito a Eastwood in più di dieci anni. Senza dimenticare il recente Changeling dove alla complice disperazione con cui è raccontata la storia, si coniuga una messa in scena talmente rarefatta e trasparenti da rendere il suo cinema invisibile, come il piccolo protagonista che scompare all'inizio del film, senza che la sua presenza ci abbandoni mai realmente. Per poi tornare a casa, nel corpo stanco di Walt Kowalski e nell'intimità invalicabile di Gran Torino, da cui è possibile uscire solo con un sacrificio. Assoluto e indispensabile. Prima di ricominciare un cammino e tornare a raccontare altro. Anche Mandela.