Recensione Disastro a Hollywood (2008)

Il film di Levinson ha difetti evidenti, in primis quello di non riuscire a trovare una propria identità nel succedersi di tanti tableau e molteplici trovate, ma ha anche una sua ragion d'essere nello sguardo inedito con cui descrive la Mecca del cinema e nella sfrontatezza con cui ne demolisce i miti.

Vivere e produrre a Hollywood

Ben (Robert De Niro) è un affermato produttore cinematografico che si barcamena tra vari problemi professionali - in particolare si trova a dover conciliare le aspirazioni artistiche dei realizzatori e le esigenze degli studios - e spinose questioni sentimentali e personali - due ex mogli, con una delle quali (Robin Wright Penn) c'è ancora un forte rapporto, e una figlia teenager (Kristen Stewart) di cui non sa praticamente nulla. Il film di Barry Levinson ci permette di trascorrere una settimana al suo fianco, focalizzandosi sui momenti salienti: il resto della sua agiata ma frenetica routine ci viene propinato in fast forward, quasi a suggerire una crescente mancanza di controllo degli eventi nel protagonista, che, travolto dagli imprevisti e incapace di rendersi conto di quanto gli accade, si pone la domanda che costituisce il titolo originale del film: What Just Happened?, che cosa è stato?

Il titolo italiano, Disastro a Hollywood, allude alla seconda anima del film, quella più lieve e divertente: la successione delle peripezie che movimentano la settimana di Ben, che vanno ad ammontare ad una satira delle manie, delle contraddizione e dei vizi dell'industry hollywoodiana.
In realtà l'equilibrio tra le due componenti non è troppo ben gestito da Levinson, a danno soprattutto del primo aspetto, il più profondo. Il secondo funziona meglio e regala momenti gustosi in particolare per merito di un paio di star che appaiono nei panni di sé stesse: Sean Penn, protagonista di film che Ben sta sta per presentare a Cannes nonché cercando di fare arrivare in qualche modo nelle sale USA, e Bruce Willis, bizzoso leading man di una pellicola in lavorazione. Penn è l'interprete di un dramma firmato da un regista inglese (Michael Wincott), che è stato affossato ai test screening commissionati dallo studios per la sua brutalità. L'isterico regista, che non ha il diritto di final cut, si agita per difendere il proprio scioccante (e grottesco, e patetico) finale e Penn è al suo fianco; il doppio premio Oscar dimostra ancora una volta di non temere di coprire giocosamente di ridicolo il suo proverbiale anticonformismo. Estremizzazione, questa, di un conflitto che a Hollywood è all'ordine del giorno, e che vede contrapporsi l'integrità artistica dei cineasti e degli attori d'impegno alle urgenze degli studios, che comprensibilmente cercano di andare incontro al pubblico più vasto.
Willis è altrettanto autoironico nel proporsi come divo egotico e ingestibile, burbero e occasionalmente violento. Anch'egli fa proclami di professionalità non compromissoria, ma finisce per cedere alle richieste altrui in nome di un pingue cachet, denunciando i propri malumori come capricci fini a sé stessi.
In tutto questo è Ben la sola figura di raccordo, esausto mediatore che finiamo per vedere come una vittima dell'irragionevolezza altrui, con esiti piuttosti divertenti e con il disvelamento di una prospettiva inedita sul ruolo di quelli che sono tradizionalmente visti come i "potenti" di Hollywood. Non per nulla il film è tratto da un libro scritto dal produttore e sceneggiatore Art Linson: in quest'ottica è interessante appaiarlo a Entourage, serie TV che analogamente racconta Hollywood ma dal punto di vista dell'attore (oltre che con piglio ben più corrosivo e dissacrante), in cui proprio quest'ultimo è invece la vittima delle bizze e dei soprusi dell'establishment. Il rovesciamento della prospettiva è particolarmente evidente nella figura dell'agente: quello che cura gli interessi di Bruce Willis in Disastro a Hollywood, interpretato da John Turturro, è un debole, terrorizzato dai suoi clienti e vittima di atroci disturbi psicosomatici ogni volta che c'è un problema da risolvere; quello interpretato da Jeremy Piven in Entourage non solo è uno dei personaggi centrali dello show, ma è anche figura di assoluta autorità e potere. Una polarità che può essere spiegata solo nella diversa angolazione dell'approccio.

Nel complesso, il film di Levinson ha difetti evidenti, in primis quello di non riuscire a trovare una propria identità nel succedersi di tanti tableau e molteplici trovate, ma ha anche una sua ragion d'essere nello sguardo inedito con cui descrive la Mecca del cinema e nella sfrontatezza con cui ne demolisce i miti. Basti pensare a una delle battute più franche, in cui si precisa il fatto che il Festival di Cannes abbia accettato il film di Sean Penn senza neanche visionarlo solo perché voleva "le star". E non è un caso che Disastro a Hollywood, pur non entusiasmando davvero nessuno, sia passato nel giro di pochi mesi, come evento speciale, sia al Sundance che proprio a Cannes 2008.

Movieplayer.it

3.0/5