Recensione Blow Out (1981)

Un incidente d'auto. Ma prima dell'incidente uno sparo. Uno sparo che è stato notato solo da Jack Terry e dal suo registratore. Sono loro gli unici testimoni di un omicidio che, nella realtà dei fatti, non esiste. Teoria del complotto e pessimismo cosmico nel capolavoro di Brian De Palma.

Uno sparo invisibile

Blow Out di Brian De Palma non è un remake in chiave thriller e politica (come qualcuno ha detto) di Blow-up di Michelangelo Antonioni. Film thriller, invero, Blow Out lo è, come anche film con implicazioni a sfondo politico (De Palma ha dichiarato esplicitamente che Blow Out è "una riflessione intellettuale sul caso Watergate"). Ma l'ossessione depalmiana di manipolare gli oggetti cinematografici in modo da trasformare quelle che sembrerebbero semplici citazioni in qualcosa di nuovo, di diverso, rende Blow Out una riflessione moderna (più che postmoderna, come vorrebbe qualcuno), totale e totalizzante sul rapporto immagine-suono. Tra il capolavoro di Antonioni e il film di De Palma c'è forse in comune solo qualche assunto di base (un cadavere non meglio identificato lì e una morte accertata ma considerata "naturale" in Blow Out; un protagonista "armato" con gli strumenti del visibile in Blow-up (ma sarà uno specifico suono ad imbrigliare le capacità mnemoniche di David Hemmings) e con quelli del sonoro in Blow Out (con Jack Terry che, prima dell'episodio cruciale, minaccerà il cielo notturno con il suo apparecchio di registrazione facendolo scintillare come il coltello dell'assassino di Vestito per uccidere). Per il resto, le deviazioni sono massime e non ci sono più punti di convergenza.

Quello che in Antonioni scoppia (dall'inglese blow up, appunto) in De Palma si spegne (blow out). Quello che Antonioni scompone a livello figurativo, De Palma cerca di ricomporre strenuamente, partendo da materiali di partenza forse tangibilmente più abbondanti. E, ancora, quello che in Blow-up è invisione del reale in Blow Out è tragedia concreta e non comprovabile, seppur simile sia il livello maniacale dei due protagonisti. Più sofferto e sofferente quello di Jack Terry (personaggio con cui John Travolta riscatta appieno le sue prove attoriali precedenti, dimostrando di non essere solo un gran ballerino) e più ambiguo ed evanescente quello di Thomas. In Blow Out c'è la volontà di far interagire in modo completo l'uomo con la tecnologia (un'altra fissazione di De Palma), laddove in Blow-up la moltiplicazione continua delle fotografie e l'ingrandimento sempre più insinuante dei particolari non porteranno a nulla, se non a dichiarare, e in grosso ritardo, la vittoria dell'irrazionalità assoluta in una Swingin' London senz'anima. Ma in De Palma la tecnologia, oltre che sfoggio ridondante d'immagini e di suoni, è il mezzo che, in ossequio alla teoria del complotto che in quel periodo poteva contare su molti proseliti (e non solo nel cinema), consente il mettere a tacere la verità. Di farla spegnere, appunto. Il lavoro improbo di Jack Terry (un vero e proprio alter ego di De Palma) è risultato inutile. Anzi, dannoso. Il protagonista è riuscito ad assemblare, con un abile lavoro di sincronizzazione, le immagini dell'incidente riportate dal giornale e i suoni registrati sul posto da Jack stesso quella notte.

Torna alla mente, più che il Blow-up di Antonioni, l'ossessione per le intercettazioni telefoniche di Harry Caul (Gene Hackman) de La conversazione di Francis Ford Coppola e l'automobile smontata pezzo per pezzo da Jimmy "Popeye" Doyle (sempre Gene Hackman, curiosamente) de Il braccio violento della legge di William Friedkin. Nei due casi citati c'è una lotta senza quartiere che porterà praticamente alla follia i protagonisti. Nel tentativo depalmiano di ricostruire la realtà partendo da una verità decostruita e vivisezionata, Jack Terry mantiene invece il suo self-control, il suo rigore e la sua integrità psicologica, pur subendo in conclusione un doppio scacco: la perdita definitiva delle prove incriminanti e la morte di Sally.

Il trattamento chirurgico dello sguardo con cui De Palma ci costringe nei suoi film a guardare e a guardare sempre più, in Blow Out serve a far scoprire il meccanismo che rende soggettiva la realtà: il solito incipit ambientato in un set cinematografico dove si sta girando un horror movie (ma noi ancora non lo sappiamo), oltre a dichiarare la sua dimensione metacinematografica, è anche anticipazione del finale (l'urlo disperato di Sally in punto di morte, e registrato quasi accidentalmente da Jack, sarà impiegato beffardamente per lo stesso B-movie su cui il protagonista sta lavorando come tecnico del suono). Ma, insieme all'inglobamento dei due protagonisti in una finzione "professionale" (il lavoro di Jack è quello di creare effetti sonori, mentre Sally vorrebbe essere la truccatrice delle dive hollywoodiane), nei fuochi d'artificio che illuminano il cielo di Philadelphia, s'interpola anche il riflesso delle luci colorate da discoteca presenti sul set dell'inizio. L'assassinio del doppione di Sally, darà avvio alla "finta" catena di omicidi che troverà termine con l'omicidio della vera Sally da parte del "falso" serial killer. E l'errore fatale che ha stroncato la carriera in polizia di Jack, si ripropone, ancora una volta, con modalità simili (problemi con i dispositivi elettronici) e con un risultato identico (la morte del soggetto "spia"). La fotografia di Vilmos Zsigmond, sprofondata nel blu, nel bianco e nel rosso della bandiera americana, accentua il senso di sconfitta della realtà. Quella stessa realtà che nei film di De Palma, una volta sollecitata al di fuori del suo terreno (nella zona, vale a dire, della riproducibilità e della fiction), presenta sempre un suo doppio. E sappiamo bene come il doppio rappresenti un luogo ricorrente (ma non l'unico) nel cinema del regista italo-americano (come il già citato Vestito per uccidere o in Omicidio a luci rosse, giusto per citare due pellicole). In Blow Out, Brian De Palma non fa eccezioni, anche se in modo più profondo e intellettuale.