Recensione Giardini in autunno (2006)

Giardini in autunno, film autoriale dall'umorismo mordace e grottesco, ci propone una riflessione sul reale valore del'avere e dell'esercitare il potere

Una strana crisi di governo

Il primo lungometraggio accreditato a Otar Iosseliani lo si data 1962: Avril. Sono i tempi della nouvelle vague, che il regista georgiano vive a migliaia di chilometri di distanza, il che non impediscono tuttavia che nel clima ribelle e rivoluzionario del cinema dei giovani turchi cresca e si formi. Tanto che, nel 1976, lasciando la madrepatria, Iosseliani sceglie proprio la Francia per continuare a girare.
Autore sicuramente difficile, poco noto al grande pubblico, ma amatissimo dalla critica, tanto da guadagnare nel corso degli anni ben un riconoscimento a Berlino, due a Cannes, e tre a Venezia, Iosseliani torna dietro la macchina da presa cinque anni dopo Lunedì mattina, film che si aggiudicò per l'appunto l'Orso d'Argento in terra tedesca.

Nel suo ritorno nelle sale (in concomitanza con un'altra kermesse festivaliera, questa volta quella di Roma), sceglie la cifra di un minimalismo un po' grottesco nel delineare la figura di un ministro, intuibilmente dell'economia o dell'agricoltura, nelle sue azioni quotidiane, che viene costretto a lasciare il potere e ritorna a vivere una sgangherata vita adolescenziale tra sigarette, birrerie e vecchie amanti.
Tutto nel film concorre all'offrire una prospettiva vetriolesca e mordace della realtà. Iosseliani fa ballare i suoi attori sul filo del nonsense, in una pazza corsa al riferimento più strano, alla situazione più assurda.
Non c'è gratuità nelle forzature dello script e della direzione attoriale, bensì tutto nell'opera concorre al messaggio che il suo autore vuole trasmettere. E sì, perché Giardini in autunno è inevitabilmente un film a tema, sul potere, sul suo ricaduto non tanto sociale e politico, ma su quello personale. "Il protagonista della nostra storia detiene il potere, è in una posizione invidiabile, ma viene cacciato... per sua fortuna. Siamo molto contenti per lui perché alla fine comincerà semplicemente a vivere", dice Iosseliani. Sta tutto in questa frase il senso che il regista ha voluto imprimere nel film.

La perdita del potere per il franco/georgiano corrisponde sì a perdita d'equilibrio, smarrimento di uno schema ordinatore all'interno del quale sistemare a puntino la propria vita. Ma il rovescio della medaglia è più brillante e prezioso: il gusto della e per la vita, il riconoscimento della preziosità dei rapporti umani, la spensieratezza di potersi fumare una Pall Mall in un giardino, in autunno ovviamente.
L'architettura del racconto si fa elemento portante del senso dell'opera. Il film scorre fluido, morbidamente pennellato da una macchina da presa che viene poco disturbata dai tagli del montaggio. L'occhio meccanico non va ad indagare fra le pieghe della scena, non ci offre particolari delle persone e delle cose. Non è un'indagine psicologica quello che interessa. Il film si eleva mantenendo un distacco dalla storia, e arrivando a parlare di amore, morte, potere, povertà, con una leggerezza sorprendente.
Il tutto è splendidamente visualizzato nel montaggio di due sequenze contrastanti. Nella prima il primo ministro maltratta la sua donna per le troppe spese. Nella seconda l'ormai ex ministro si bea di due note strimpellate al piano. Una dicotomia cercata, evidenziata brutalmente, che sarebbe stata una perfetta chiosa per il film.
Purtroppo Iosseliani si fa prendere la mano quel che basta per diventare didascalico negli ultimi venti minuti, trascinando avanti, seppur discretamente, un tema che, nel contrasto di quelle due sequenze, culmine paradigmatico di un percorso, non aveva più nulla da dire.