Recensione Welcome To Dongmakgol (2005)

L'esordio di Park Gwang-hyun ha vinto il Far East ed è stato un grande successo in patria: un risultato che premia l'afflato poetico e la grande carica emozionale che permeano il film, contemporaneamente credibile e fiabesco senza essere mai retorico.

Una fiaba nel bel mezzo dell'inferno

Durante la guerra di Corea, un battaglione di soldati nordcoreani cade in un'imboscata alla quale sopravvivono solo il comandante Lee, il soldato Jang e il giovane Taeg-ki. I tre superstiti incontrano una ragazza di nome Yeo-il, che li conduce al villaggio di Dongmakgol: incredibilmente, gli abitanti sono ignari del fatto che intorno a loro stia infuriando una guerra, e non hanno idea di come sia fatto un fucile o una divisa militare. Nel villaggio hanno trovato rifugio anche un ufficiale americano e due soldati sudcoreani: dopo i primi momenti di tensione, i due gruppi acconsentono a una tregua, restando lentamente conquistati dallo stile di vita pacifico e comunitario del villaggio. Ma il conflitto intorno a loro, purtroppo, non si è ancora concluso.

Proiettato nella serata conclusiva del Far East Film Festival, e meritato vincitore del premio del pubblico, questo Welcome to Dongmakgol ha riscosso un grande successo in patria, divenendo in breve il più grande incasso della stagione al botteghino sudcoreano. Un risultato che premia il grande sforzo produttivo dietro all'esordio del regista Park Gwang-hyun (con un notevole budget e un uso massiccio della computer grafica), ma anche, e soprattutto, l'afflato poetico e la grande carica emozionale che permeano il film, contemporaneamente credibile e fiabesco senza essere mai retorico. Quello che sorprende è il grande lirismo delle immagini create da Park, la sua capacità di trasportare lo spettatore in un universo fantastico e fuori dal tempo come il villaggio di Dongmakgol: sembra di assistere a un'opera fantasy quando si vede la scenografia del villaggio, il modo di vestire dei suoi abitanti, la concordia nel loro modo di vivere. E' fantastico il clima, l'atmosfera che si respira nelle scene ambientate a Dongmakgol: l'uso perfetto e mai gratuito del digitale contribuisce in modo eccellente a questo risultato, con momenti visivamente molto forti (i voli delle farfalle, o l'incredibile sequenza della pioggia di popcorn) che non possono non restare impressi.

Il regista, presente alla proiezione, ha citato tra i suoi modelli gli italiani Mediterraneo e La vita è bella, e non certo a caso: nel suo film è presente la stessa capacità di trarre poesia da una situazione drammatica, lo stesso slancio etico pacifista, lo stesso rigore stilistico che è capace di rendere credibile uno spunto di partenza dichiaratamente fantastico, raggiungendo così il fondamentale obiettivo della sospensione dell'incredulità. Un obiettivo raggiunto grazie anche alla grande coerenza della sceneggiatura, alla precisa caratterizzazione dei personaggi, alla credibilità dei loro comportamenti: non ci si dimentica mai, durante il film, di essere di fronte a soldati che un attimo prima stavano partecipando a un massacro, e si ha sempre presente l'inevitabile temporaneità dell'idillio di Dongmakgol. Ma di quell'idillio resta una traccia consistente nella mente dello spettatore, per la capacità dimostrata dal regista di renderlo reale quanto i bombardamenti e gli scontri a fuoco: Dongmakgol resta dentro, e sentiamo che difenderlo, in fondo, è un po' dovere di tutti. E del regista Park Gwang-hyun, siamo disposti a scommetterci, sentiremo ancora parlare.

Movieplayer.it

4.0/5