Recensione La siciliana ribelle (2008)

In questa appassionante pellicola Veronica D'Agostino incarna una figura di donna da ricordare con enorme rispetto, quella Rita Atria che all'epoca dei maxi processi contro la mafia si presentò quale testimone chiave, dissociandosi dall'ambiente in cui lei stessa era cresciuta, per poi suicidarsi pochi giorni dopo l'assassinio di Borsellino.

Una donna contro gli uomini d'onore

Tra le note più incoraggianti emerse in questi anni nel cinema italiano, spicca la tendenza a concepire figure femminili problematiche, energiche, portatrici talvolta di un innovativo modus vivendi, proprio a ridosso di quel fenomeno mafioso che è da sempre un baluardo del nostro immaginario cinematografico. Il pensiero corre ovviamente ai personaggi interpretati con vigore e ferina determinazione dall'ottima Donatella Finocchiaro, già donna di mafia nel suo esordio sul grande schermo, Angela di Roberta Torre, e più recentemente "esportata" da Edoardo Winspeare in un contesto attiguo, la "Sacra Corona Unita" di Galantuomini. Nell'ideale staffetta da noi prefigurata il testimone è passato ora alla giovane lampedusana Veronica D'Agostino, che aveva invece esordito in Respiro di Emanuele Crialese.
In quest'altra pellicola tesa e appassionante, La siciliana ribelle, è proprio lei ad incarnare una figura di donna che merita di essere ricordata con enorme rispetto, quella Rita Atria che all'epoca dei maxi processi contro la mafia si presentò quale testimone chiave, dissociandosi dall'ambiente in cui lei stessa era cresciuta, per poi suicidarsi pochi giorni dopo l'attentato mortale a Paolo Borsellino.

Il fatto che la vicenda di Rita sia relativamente poco conosciuta, rispetto a quelle di altri martiri della lotta alla criminalità organizzata, è già un motivo valido per apprezzare questa coproduzione italo-francese, affidata alla regia di un documentarista attento e motivato come Marco Amenta, balzato agli onori delle cronache per Il Fantasma di Corleone; il documentario divenne un caso anche grazie alle incredibili circostanze che ne accompagnarono l'uscita in sala, avvenuta una decina di giorni prima che il boss Bernardo Provenzano, di cui si tracciava il profilo, venisse arrestato.
Tornando a La siciliana ribelle, la pellicola si concede in modo sincero e pulito di rievocare l'infanzia della protagonista, vissuta come accennavamo prima in una famiglia mafiosa, con prima il padre e poi il fratello della ragazza fatti assassinare a tradimento dal boss di un clan rivale; tutto ciò nel periodo in cui alla vecchia generazione degli uomini d'onore, in quella Sicilia anni '80 dove tali faide si lasciarono dietro una interminabile scia di sangue, sparatorie e incaprettamenti, andavano sostituendosi le nuove leve favorevoli al traffico di stupefacenti così come a linee d'azione ogni volta più spregiudicate e brutali. Dopo la mattanza, sete di giustizia o semplice desiderio di vendetta nel cuore di Rita?

La prima parte del film di Amenta, tutta giocata su soggettive della bambina, colori saturi, ed elementi tipici del più classico racconto di formazione, ci presenta una protagonista dotata di forte temperamento, sin dalla più giovane età, ma perfettamente integrata in quel tessuto di comportamenti omertosi e cultura dell'illegalità che rendono impenetrabile la cultura mafiosa. In questo clima il padre e il fratello di Rita, mafiosi uccisi da altri mafiosi, continuano ad essere percepiti da lei come capri espiatori, se non addirittura eroi. Poi la svolta. Ovvero una volontà di emanciparsi dettata inizialmente da un primitivo desiderio di vendetta, trasformatosi poi in dolorosa accettazione di una realtà più dura e scabrosa del previsto. Appena adolescente Rita si rivolge alla polizia e ai magistrati un tempo guardati con odio, dando il via a quella serie di scelte coraggiose che la porteranno in tribunale a testimoniare contro i carnefici della propria famiglia, sotto la guida quasi paterna (anche questo, volendo, un significativo passaggio del testimone) del giudice Borsellino. Senza più vedere, comunque, i propri famigliari scannati giù al paese quali vittime innocenti e pure.
Ed è così che le riprese acquistano spessore drammatico dallo spezzarsi della quiete illusoria riscontrata nella prima parte, lasciando spazio a una fotografia più opaca e granulosa, a inquadrature taglienti, a un montaggio convulso che rispecchia fedelmente le inquietudini apparse nell'animo di Rita, sentitasi troppo presto abbandonata (in quanto collaboratrice di giustizia) dalla sua gente, tra cui una terribile figura di madre decisa a rinnegarla in nome di arcaiche consuetudini.
Bisogna pur dire che, al di là di certe sapienti soluzioni registiche e narrative, il film di Amenta soffre un po' della tendenza a contraddire il realismo di fondo con qualche furbizia di troppo nella confezione dell'opera, tocchi astuti che vanno dal ripetersi di scene madri nelle occasioni emotivamente più ghiotte, all'impronta ridondante del commento musicale. La genuinità dell'operazione potrebbe in parte sfumare, ad assicurare profondità e tensione ci pensano però interpreti ispirati come il francese Gérard Jugnot, qui nei panni di Borsellino, o come una Lucia Sardo tetra e spaventosamente veritiera nel ruolo della madre di Rita. Ma è soprattutto lei, Veronica D'Agostino, a proporsi quale assoluta rivelazione, facendo rivivere con fierezza intrisa di sgomento la breve ed intensa parabola di questa Giovanna D'Arco sicula.