Recensione Showtime (2010)

Deludente ritorno alla regia dell'autore hongkonghese che, tornato dopo cinque anni dietro la macchina da presa, riprende alcune tematiche consolidate nella sua poetica senza però riuscire a svilupparle in maniera originale e coerente.

Una danza attraverso il tempo

Assieme a Wong Kar-wai, Stanley Kwan è stato probabilmente uno dei grandi innovatori della cinematografia di Hong Kong dopo lo New Wave degli anni Settanta e Ottanta: un "autore" nel senso più puro del termine, che è riuscito a coniugare il recupero del cinema di genere (in particolar modo del melodramma e della commedia) con istanze di sperimentazione linguistica, muovendosi in bilico tra il recupero della tradizione del passato e l'innovazione del cinema europeo contemporaneo. È naturale, dunque, che nei confronti di un regista come Kwan, che negli ultimi anni è stato sempre meno prolifico (l'ultimo film, Everlasting Regret, risale ben a cinque anni fa ed è stato presentato proprio a Venezia) le aspettative siano sempre molto elevate. Tuttavia il suo ultimo esperimento, l'anomalo Showtime, pur sofferente di alcuni difetti imputabili soprattutto alle difficoltà produttive e alle limitazioni di budget, non fa altro che confermare la deriva improntata sulla sterilità e l'autoreferenzialità in cui sembrano essere piombati i grandi autori asiatici nell'ultima decade.

Il regista torna ad affrontare temi ormai stabilmente radicati nella sua poetica, come l'incontro/scontro tra il presente e il passato della Cina, il contesto meta-cinematografico (con particolare riferimento al melodramma degli anni Trenta), la riflessione sul rapporto tra arte e vita e soprattutto una concezione dialettica e contraddittoria delle relazioni umane (fondate sull'opposizione binaria di yin e yang). Eppure, questa volta, non riesce a sviluppare le istanze di contenuto con la dovuta profondità e coerenza. Anche in questo caso, come già avveniva nel capolavoro Rouge, l'intreccio si fonda su elementi soprannaturali. Protagonisti sono, infatti, gli spiriti di un gruppo di giovani attori d'opera degli anni Trenta che vivono, come intrappolati per una sorta di maledizione, nell'epoca contemporanea. Per tornare indietro nel tempo devono riuscire a convincere un'altra comitiva di giovani danzatori a eseguire una performance insieme. L'incantesimo si scioglierà soltanto nel momento in cui la cultura del passato (fondata sul rigido rispetto delle regole) e quella del presente (caratterizzata dalla libertà espressiva e dall'improvvisazione) riusciranno a fondersi armoniosamente.
Nonostante la metafora della danza come ponte tra due momenti della storia e della cultura cinese sia alquanto suggestiva, Showtime non riesce a elaborare gli spunti di partenza in maniera sufficientemente coerente, finendo ben presto per accartocciarsi su se stesso. Per di più il regista non riesce a tradurre gli elementi dell'intreccio attraverso un'efficace messa in scena sul piano visivo, preferendo piuttosto affidarsi a didascalici dialoghi per spiegare al pubblico i confusi e criptici snodi narrativi. Non bastano nemmeno dei brevi cammeo (tra cui quelli di Tony Leung Ka Fai e del direttore della fotografia Christopher Doyle) a rievocare una stagione del cinema di Hong Kong d'oro che sembra, quella sì, ormai definitivamente tramontata.