Recensione Fargo (1996)

Tra avvenimenti grotteschi, divagazioni prive di senso diegetico, infrazione di molteplici convenzioni narrative, i Coen ci immergono chirurgicamente all'interno di un mondo assurdo, meschino e crudele, dominato dall'opacità.

Un universo di sbiadite comparse

Siamo nel 1996 quando Joel Coen e Ethan Coen danno vita al loro primo capolavoro (ne seguiranno almeno altri due) e al loro film stilisticamente più personale. Indubbiamente i fratelli americani avevano già dato ampia dimostrazione del loro assoluto talento ed anche delle loro potenzialità commerciali, visto che il loro Mister Hula Hoop potè fregiarsi di un budget ben più ricco di ogni altra precedente pellicola e di un cast di notevole richiamo. Fu però un flop commerciale; i Coen, per quanto giocosi, si mostrarono troppo sofisticati per il grande pubblico. Ecco quindi che Joel e Ethan tornano in famiglia, richiamano Frances McDormand e Steve Buscemi, gli affiancano uno strepitoso Peter Stormare (nei panni di un insensibile, taciturno e tragico idiota) e rielaborando un fatto di cronaca accaduto nel Minnesota nel 1987 (uno squallido rapimento interfamiliare dal triste epilogo), firmano un gioiello che vince a Cannes il premio per la miglior regia e gli Oscar per la miglior sceneggiatura e per l'interpretazione della McDormand.

Si diceva in apertura come Fargo sia l'opera più marcatamente personale dei Coen, il film dove probabilmente si sono messi più in discussione. Vediamo di approfondire tale argomentazione. Se ad un primo sguardo ciò che sorprende è la messa in scena di desolante opprimenza, in virtù della centralità della neve come unico elemento paesaggistico, e ineditamente sobria oltre che spoglia (ad un analisi approfondita non sfuggirà la totale assenza di movimenti di macchina spettacolari, come di campi lunghi) seppur molto elegante, il film conta numerosi elementi di differenziazione e di innovazione rispetto alle opere precedenti che vanno oltre la scelta di una regia essenziale.

Si posso notare quindi rilevanti elementi di discontinuità nelle interpretazioni fortemente antidrammatiche (non in direzione scansonata come in altre occasioni, quanto piuttosto centrate sull'apatia totale dei protagonisti), nell'ispirarsi ad una storia vera, nell'assenza di una voce fuori campo, nella poca verbosità e brillantezza dei dialoghi e nella non inquadrabilità del plot in una struttura di genere (a voler proprio rintracciarne una a volte il film sembra intraprendere la strada del thriller ma infrangendone ogni convenzione drammaturgica). Contemporaneamente, non sono assenti i tratti più distintivi del cinema dei Coen che non rinunciano del tutto ad una certa astrattezza della forma come alla caricatura dei personaggi, che paiono sempre osservati con humor nero, dall'alto verso il basso, senza nessuna immedesimazione.

Un film quindi coraggioso e riuscito a pieno che trova il suo perfetto equilibrio nel binomio essenzialità-ricerca; nel saper privare lo spettatore di tutti i variegati e sfiziosi rimandi e citazioni al cinema classico hollywoodiano e non solo, che da sempre contraddistinguono lo stile dei due autori. E' in virtù di questa scelta per il film assume personalità e profondità. Tra avvenimenti grotteschi, divagazioni prive di senso diegetico, infrazione di molteplici convenzioni narrative, i Coen ci immergono chirurgicamente all'interno di un mondo assurdo, meschino e crudele, dominato dall'opacità. Quella rappresentata è una provincia né da sogno (come nel vecchio cinema), né da incubo (come in molto di quello nuovo). E' semplicemente priva di vita e di stimoli, piatta come il suo paesaggio, vuota come i suoi abitanti; banale nel bene e nel male, in una parola insignificante. Insignificante come le situazioni e i dialoghi che dominano la vita di uomini e donne incapaci di elevarsi oltre il muro della mera sopravvivenza.