Recensione The Buried Forest (2005)

Già presentato alla Quinzaine del Festival di Cannes di quest'anno, e ora passato a Roma all'Asian Film Festival, questo The Buried Forest ha le cadenze e gli umori di un sogno che lentamente invade la realtà.

Un sogno che si svela lentamente

Machi è una studentessa liceale che vive con la sua famiglia in una piccola città di montagna; la ragazza, insieme a due sue amiche, inizia a immaginare una storia che comincia con l'arrivo di un cammello in città, e viene di volta in volta arricchita di particolari da ognuna di loro. Una notte, una tempesta apre una falla nel terreno vicino al campo di criquet, rivelando un'antichissima foresta sotterranea, rimasta incontaminata nel corso dei secoli: gradualmente, i sogni delle tre ragazze sembrano iniziare a materializzarsi, mentre i confini tra realtà e immaginazione si fanno sempre più incerti.

Già presentato alla Quinzaine del Festival di Cannes di quest'anno, e ora passato a Roma all'Asian Film Festival, questo The Buried Forest ha le cadenze e gli umori di un sogno che lentamente invade la realtà. Il film inizia come rappresentazione realistica, quasi naturalistica di vita quotidiana, descrivendo le piccole miserie del mondo degli adulti, l'ingenua fiducia della "comunità" dei bambini e le tese inquietudini degli adolescenti della cittadina, alla ricerca di qualcosa di impalpabile a cui non sanno dare una forna né un nome. La scoperta della foresta sepolta farà materializzare lentamente i sogni sepolti nell'inconscio dei ragazzi, invadendo il terreno di una quotidianità le cui regole vengono per la prima volta messe in discussione. Il tono della narrazione digrada lentamente verso un'atmosfera iperrealistica, con momenti di forte visionarietà e un mood che si fa sempre più onirico, ben reso anche visivamente dai toni sognanti della fotografia.

Il regista Kohei Oguri, rivelatosi a Cannes nel 1990 con il suo L'aculeo della morte, regala al film una regia avvolgente e di grande fascino. E' ipnotico, il procedere della narrazione, così come ipnotiche sono le sequenze conclusive ambientate all'interno della foresta, con una visionarietà (resa anche grazie a un uso intelligente del digitale) che è figlia sia dell'iperrealismo di alcuni manga, sia dei momenti più onirici della filmografia di un regista probabilmente ben conosciuto da Oguri, il nostro Federico Fellini. Il fascino del finale completa un film che entra lentamente sottopelle, con singole immagini che restano impresse nella mente di chi guarda ed esplicitano il significato del cinema come arte innanzitutto visiva: un risultato sicuramente coerente con le sue premesse, in cui l'impatto emotivo è figlio della grande suggestione visiva.

Movieplayer.it

3.0/5