Recensione L'arco (2005)

Un film interessante e problematico come tutte le opere di Kim Ki-duk, pur nei limiti della riproposizione di formule e "marchi" autoriali che forse il regista dovrà rivedere criticamente.

Un'ossessione in perenne tensione

Dopo un 2004 che ha visto l'uscita di ben due suoi film (La samaritana e Ferro 3 - La casa vuota), entrambi molto apprezzati da pubblico e critica, Kim Ki-duk continua a girare film al suo ritmo, sicuramente molto elevato per gli standard occidentali e soprattutto per un regista il cui cinema presenta caratteristiche autoriali così ben definite. Caratteristiche che, ad osservarle da vicino, ricorrono in tutta la sua filmografia, e che si esplicitano in stilemi narrativi che rappresentano ormai un po' il "marchio di fabbrica" per il cinema di Kim. Questi stilemi li ritroviamo tutti ne L'arco, ben presenti all'interno di una storia che, come spesso succede nei film del regista coreano, fa della semplicità la sua caratteristica fondamentale: il desiderio ossessivo, quasi compulsivo; l'ineluttabilità della violenza come parte integrante della vita dell'individuo, spesso legata a doppio filo all'amore; l'isolamento dal mondo esterno come condizione ideale per far deflagrare i conflitti e le ossessioni dei personaggi; la riduzione all'essenziale dei dialoghi e l'uso di altri canali (specie gli sguardi, esplicitati da un uso frequente del primo piano) come mezzo per trasmettere sensazioni.

Così, L'arco è subito riconoscibile come un film di Kim Ki-duk: tanto riconoscibile da far sospettare, a volte, che nel modo di fare cinema del regista coreano stia iniziando ad affiorare un po' di maniera. Il sospetto si affaccia in virtù della particolarità del set, così vicino a quello di opere precedenti quali L'isola e Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, degli elaborati giochi cromatici, di alcune autocitazioni (la sequenza dell'amo da pesca in bocca, che richiama al tema portante del già citato L'isola) che sembrano frutto più di autocompiacimento che di vera coerenza stilistica. Un dubbio che è presente, che permane per tutta l'ora e mezza di film, e che probabilmente potrà essere fugato o confermato solo dalle prove successive del regista: ma è un dubbio che non impedisce di apprezzare quest'opera per quello che è, ovvero l'ennesima riflessione sul desiderio e sulla violenza, non il miglior film di Kim Ki-duk ma comunque una pellicola permeata della stessa lucidità e della stessa forza espressiva di tutti i film del regista.

Lo strumento che dà il titolo al film è qui il nuovo oggetto su cui si fonda il simbolismo di Kim: per il vecchio protagonista (senza nome come gli altri due personaggi principali), l'arco è un'arma con cui tenere lontani i pescatori che insidiano la sua giovanissima compagna, ma è anche uno strumento musicale da cui trarre note che placano la mente e un oggetto divinatorio con cui predire il futuro. Ma l'arco è anche simbolo del desiderio del protagonista, di un'ossessione in perenne "tensione" che non vedrà mai il raggiungimento dell'oggetto bramato. La storia d'amore al centro della vicenda, quella che spezza l'equilibrio tra l'uomo e la futura moglie-bambina, è forse l'elemento più debole del film, non raggiungendo neanche lontanamente il lirismo che aveva caratterizzato il sognante e dolcissimo rapporto tra i due amanti di Ferro 3. Quello che la sceneggiatura, al contrario, approfondisce maggiormente è proprio il singolare rapporto tra la ragazza e il suo mentore-carceriere, la dolce ambiguità che trabocca da ogni inquadratura (vedi le sequenze del bagno della giovane), la violenza del cerimoniale della predizione del futuro, la tenacia suicida con cui l'uomo rifiuta di staccarsi dall'oggetto della sua ossessione. Questi elementi, che crescono esponenzialmente nel corso della narrazione, finiscono per deflagrare in un finale di indubbia potenza visiva.

Vanno citati, come elementi fondamentali alla riuscita del film, anche la colonna sonora di Kang Eun-il, con il suo violino coreano a dar voce alle note suonate dal vecchio (lo strumento è stato scelto dal regista perché si suona pizzicandolo come si potrebbe fare con l'arco), e le performance dei tre attori principali, sicuramente abili in un contesto in cui era richiesto di recitare con il corpo e le espressioni più che con la voce (voce che, nel caso della ragazza e del vecchio, non ci è mai dato di sentire).

Pur non svettando all'interno della filmografia di Kim, dunque, L'arco si rivela un film interessante e problematico come tutte le opere del regista coreano: non un semplice, vuoto esercizio di stile, ma un'opera che, pur nei limiti della riproposizione di formule e "marchi" autoriali che forse il regista dovrà rivedere criticamente, presenta tutte le tematiche e la profondità di approccio che ci hanno fatto amare il suo cinema. E' in tutto e per tutto un film di Kim Ki-duk insomma: questo, già in sé, non è poco.

Movieplayer.it

3.0/5