Recensione Lord of War (2005)

Niccol, regista affermato nonostante i suoi appena due film, delude nella messa in scena di un film che vuole strafare ma che non riesce a coinvolgere.

Un'occasione mancata

Da uno del calibro di Andrew Niccol, resosi celebre con soli quattro film, più o meno discussi ma tutti innegabilmente di un certo fascino, ci si aspetta sempre qualcosa di buono. Con alle spalle la regia di Gattaca - La porta dell'universo e S1m0ne, la sceneggiatura di The Truman Show e il soggetto dello spielberghiano The Terminal, il giovane neozelandese si è in breve tempo accreditato come buon regista e genitore di idee quasi sempre vincenti. E questo sicuramente anche per l'aiuto, offerto tramite mezzi e spazi creativi, del giro bene della Hollywood che conta, che l'ha preso a benvolere sin dall'inizio.
E così, ormai avviato a pieno titolo nel jet set del cinema internazionale, Niccol mette insieme un cast di tutto rispetto, nel quale figurano Nicolas Cage, Ian Holm e quell'Ethan Hawke che ne aveva accompagnato l'esordio fantascientifico.

Gli elementi, in potenza, ci sono tutti: uno dei più fervidi contastorie del mainstream, un cast d'eccezione, una larga possibilità produttiva. Il tutto accompagnato da una distribuzione quanto mai azzeccata, con una delle locandine più coraggiose e non conformi alla vulgata comune degli ultimi anni.
L'atto che si spiega sullo schermo è lontano dalle premesse. La materia filmica che si dipana lungo un plot piatto e dilatato trae linfa da un'idea di fondo non originalissima, ma potenzialmente accattivante. Quella di un trafficante d'armi spregiudicato, che si vende al miglior offerente nascondendo tutto alla famiglia. Soggetto semplicissimo che, sviluppato adeguatamente, avrebbe potuto rendere molto più di quello che in effetti fa.

Intorno al quindicesimo minuto si rinuncia a qualsiasi tipo di attinenza con una realtà plausibile. Ma questo potrebbe essere il minore dei mali. La fretta di raccontare la vita, tutta la vita, nulla escluso, di un Nicolas Cage che pur riesce a dare un minimo di profondità al personaggio, induce a una spirale ossessiva di racconto in voice off, che inonda finanche l'immagine di una sovrabbondanza di senso e significato che finisce per ottenere l'effetto esattamente opposto, svuotando il girato di qualsiasi forza introspettiva o comunicativa.

Tantissimi elementi, pienezza di idee, ma offerte in modo confuso, se va bene, logorroico e monocorde per la maggior parte del tempo. Un'esigenza di far vedere e toccare con mano tutto che si rivela estremamente controproducente, banalizzando e sovraccaricando un girato che, pensato diversamente, si sarebbe potuto rilevare di ben altra fattura.
A poco serve il coraggio finale di non pacificare una figura sostanzialmente cinica in un finale non facilmente buonista.
La frittata era già stata fatta.