Recensione Monster (2003)

Leviamoci subito il dente quindi: la Theron è più che convincente. Si trasforma in una disperata donna di strada e sceglie con coraggio e talento di affidare il grosso della sua interpretazione al linguaggio del corpo.

Un mostro di devianza

Compito non semplice quello di scrivere di Monster: film tratto dalla vera storia della donna serial killer Aileen Wournos di cui si è parlato, specie in America, esclusivamente per l'interpretazione di Charlize Theron. La mimetica prova dell'ex modella, sembra infatti essere l'unico ed esclusivo elemento di analisi di un film nel complesso interessante, seppur non privo di momenti non molto riusciti; un film comunque consigliabile in virtù della sua intensità e dell'interesse per la storia raccontata e non solo per la prova della Theron.

Leviamoci subito il dente quindi: la Theron è più che convincente. Si immedesima notevolmente nella parte, si trasforma totalmente in una disperata donna di strada e soprattutto sceglie con coraggio e talento di affidare il grosso della sua interpretazione al linguaggio del corpo e ad una trivialità molto realistica. Un'ottima prova quindi, ma forse è limitativo racchiudere lo spazio di un intero film sulle trasformazioni fisiche di un'attrice, per quanto ormai il superprofessionismo del cinema americano, seppur a volte parossistico (è lecito ancora una volta chiedersi se l'ingrassare quasi quindici chili per interpretare una parte sia del tutto necessario a i fini del risultato), ha decisamente contagiato anche la stampa italiana, che un po' come il Sun, Il Times e Il New York Post, ha sovente dedicato l'intero articolo alla Theron o meglio alla nascita della donna Robert De Niro. Un'interpretazione che comunque, è doveroso ricordarlo, l'ha fregiata di un Oscar, un Golden Globe, un riconoscimento a Berlino e uno allo Screen Actors' Guild.

Detto questo torniamo un po' indietro per rispondere ad una domanda che al lettore probabilmente interesserà: chi è Aileen Wuornos? Risposta: una ragazza del Michigan, nata nel 1956 con alle spalle una delicatissima situazione familiare, un'ustione al volto a sei anni, un rapporto probabilmente incestuoso col fratello, una maternità a 14 anni con conseguente abbandono della scuola ed ingresso nel mondo della prostituzione. Da lì, l'usuale itinerario della devianza: arresti, aggressioni, alcolismo, fino a che improvvisamente si innamora della venitiseienne Tyria Moore (interpretata nel film da Christina Ricci). Ma il destino sembra ineluttabile per la Wuornos e dopo un omicidio per legittima difesa, una molla scatta nella sua testa e diventa una serial killer. Muore nel 2002, giustiziata per i suoi omicidi, mediante iniezione letale, dopo anni trascorsi nel braccio della morte.

E' semplicemente una donna sfortunata, vittima di situazioni durissime o una figlia illecita dell'america meno edulcorata? Quale che sia la risposta: che abbia potuto esercitare arbitrio sul percorso della sua vita o no, la sua esistenza è il ritratto delle devastazioni sulle personalità dovute ai dissesti psicologici infantili e la sua figura assomiglia molto a quella delle donne da bar malfamati mirabilmente descritte nei racconti di Bukowski. La sua vita è un calvario e la regista Patty Jenkins le piazza la camera addosso e segue il calvario fino alle estreme conseguenze. Acuta nel non intraprendere la pericolosa via del giustificazionismo (col rischio di fare un'eroina della vittima-carnefice Wuornos) e nel non indugiare sui momenti violenti, la pellicola mostra però la corda però nell'uso spesso improprio e didascalico della voce narrante e nell'assoluta superficialità e schematismo della scrittura dei personaggi di contorno.