Recensione Rasputin (2011)

Guardando da un lato al linguaggio delle avanguardie, dall'altro alla pittura e ai nuovi media, Nero cerca di costruire una sorta di onirico docu-drama in cui la figura del mistico Rasputin emerga nella sua complessità, distanziandosi dalle ricostruzioni più convenzionali.

Un ipnotico docu-drama

Quella del mistico Grigorij Efimovic Rasputin è una figura che il cinema ha rappresentato più e più volte nel corso della sua storia. A partire dal muto, già pochi anni dopo la sua morte, sono tanti i film che si sono addentrati nella controversa figura del guaritore russo, naturale fonte di fascino e suggestioni: da quelle gotiche di Rasputin, il monaco folle, interpretato nel 1966 da Christopher Lee, alle varianti di Anastasia della Disney e di Hellboy di Guillermo Del Toro, sempre tese a rappresentare un Rasputin folle, dedito a pratiche occulte e malvagie, presenza perniciosa e disgregatrice per la famiglia imperiale. Il regista Louis Nero, già autore di un pugno di piccoli e originali film (si ricordi il recente La rabbia, candidato ai David di Donatello) tenta qui un'operazione diversa: guardando da un lato al linguaggio delle avanguardie, dall'altro alla pittura e ai nuovi media, Nero cerca di costruire una sorta di onirico docu-drama in cui la figura del mistico emerga nella sua complessità, in cui peccato e redenzione si confondano, e in cui il suo percorso acquisti valenze quasi cristologiche. Operazione certo ambiziosa, che si avvale della voice over di Franco Nero e della ipnotica interpretazione di Francesco Cabras, la cui mesmerica presenza si sovrappone quasi a quella del regista nel suo tentativo di far compiere al pubblico una sorta di viaggio nell'inconscio.


C'è una interessante contaminazione di linguaggi, in questo nuovo Rasputin, che parte dall'uso del digitale (condizione minima indispensabile per conferire al film il look voluto dal regista) per ricostruire la storia del personaggio attraverso una struttura a incastro, con continue sovraimpressioni, immagini che sono quasi tableau vivants, eterei frammenti di interviste a personaggi del passato, in un viaggio a ritroso che vuole restituire i diversi aspetti della vita e della morte dell'uomo. Quello che emerge è, appunto, un Rasputin che ambiguamente accarezza il peccato, che lo penetra e se ne abbevera per poi distanziarsene radicalmente, con una totale mortificazione della carne e annullamento del sé. Angelo e diavolo al tempo stesso, quindi, figura enigmatica e obliqua, che Cabras cerca di rendere con un'interpretazione il più delle volte adeguata agli scopi del film, ma in certi tratti paradossalmente un po' sopra le righe, quasi che l'attore non riesca a liberarsi del tutto dalla visione più convenzionale e stereotipata del personaggio. Una visione tuttavia contraddetta da una regia che non teme i rischi del formalismo, mostrando anche un'eleganza notevole nelle sue ambizioni estetiche più "alte".

Il problema principale del film è che questo non rinuncia all'essere, sostanzialmente, una sorta di biografia, e che quindi non si distanzia da un intento narrativo che è in sé piuttosto convenzionale. Quella che viene ricostruita, seppur con una cronologia frammentata e a ritroso, è l'esistenza di un personaggio storico, le cui tappe vengono scandite con gli eventi più noti: anche gli esperimenti visivi più arditi restano subordinati quindi a un'esigenza che resta primariamente narrativa. In questo senso, appare spesso fuori luogo e ridondante la continua presenza di split screen, "finestre" multimediali che si aprono e chiudono, saturazioni del campo visivo. Se il ritmo del film è lento, quasi dilatato nonostante l'ora e mezza scarsa di durata, il regista sembra quasi voler compensare inserendo più elementi possibili all'interno dell'immagine, con un'insistenza che appare spesso un po' fine a sé stessa. La commistione tra il look postmoderno del film e le scenografie primo novecentesche ha indubbiamente il suo fascino, ma quello che sembra mancare è un po' la misura in un impianto visivo che finisce fatalmente per scollarsi da quello narrativo. Non si può comunque non fare menzione delle musiche di Teho Teardo, anch'esse ipnotiche e rappresentanti qualcosa di più di una semplice sottolineatura, che certo partecipano in modo decisivo all'atmosfera del film.
Questo Rasputin risulta essere quindi un esperimento imperfetto quanto affascinante, certo da premiare per gli intenti, specie in un panorama come quello italiano attuale: se il cinema postmoderno è commistione e contaminazione, il film di Louis Nero ne coglie bene la filosofia e le potenzialità, pur non riuscendo forse a tramutarle in un amalgama filmico compatto e coerente. Le sue immagini, così eleganti e pittoricamente ricche, presentano una forza intrinseca da non sottovalutare.

Movieplayer.it

3.0/5