Recensione Nightmare (2010)

Un remake che prova a trasportare l'icona-Krueger in una dimensione moderna, restituendo il personaggio alla sua natura onirica e spaventosa, non ancora contaminata dalle successive derive umoristiche.

Un incubo rinnovato, ma reso inoffensivo

Tra i tanti remake dei cult horror anni '70 e '80 che hanno invaso i nostri schermi nelle ultime stagioni, questo dell'originale Nightmare - Dal profondo della notte era probabilmente il più atteso. Difficile, infatti, pensare a un mostro che abbia segnato l'immaginario horror degli ultimi decenni più del Freddy Krueger creato da Wes Craven nel lontano 1984, praticamente impossibile trovarne uno che avesse la stessa portata teorica e politica, che fosse ugualmente in grado di rappresentare il rovescio delle pulsioni adolescenziali e la cattiva coscienza del tessuto sociale americano, il male creato dalle generazioni passate che torna a tormentare quelle presenti. Un film che fu origine di un franchise infinito che aveva progressivamente snaturato il personaggio, con un Robert Englund costretto a interpretarlo più e più volte, con sempre minore convinzione e la consapevolezza di partecipare alla sue inevitabile riduzione a icona serializzata e innocua. Questo reboot, arrivato dopo quelli analoghi di Non aprite quella porta, Halloween: The Beginning e Venerdì 13, voleva innanzitutto restituire il personaggio alla sua dimensione originaria di moderno babau, azzerarne le derive più umoristiche e iconiche e farlo tornare emblema del male, tanto più spaventoso quanto più riconoscibile come prodotto della società contemporanea, da essa al tempo stesso creato e temuto. Va detto che un intento del genere era già stato quello dello stesso Craven nel suo sottovalutato Nightmare Nuovo incubo, ma qui l'azzeramento è totale, Krueger torna in un altro decennio (segnato dai cellulari e dall'uso di Internet), per un'altra generazione di spettatori e soprattutto in un altro cinema; con un altro interprete, inoltre, sulla carta perfetto per raccogliere un'eredità importante quanto scomoda come quella di Englund.

Il risultato, spiace dirlo, delude sotto tutti i punti di vista, e guardando il film ci si chiede perché non si sia riservata una maggiore cura, almeno formale, a un remake tanto atteso: specie se l'intento era davvero quello di rivitalizzare una saga che comunque tanto ha rappresentato per un'intera generazione di appassionati del genere. L'idea con cui si è voluta approcciare l'operazione non era in sé disprezzabile: fare tabula rasa di tutto ciò che si è visto nei film precedenti, presentare Freddy Krueger come un personaggio del tutto nuovo, dargli anche un nuovo background, scelta quest'ultima che poteva essere frutto di sviluppi inediti e interessanti. Purtroppo, la bontà dell'idea di base cozza contro una scrittura incerta e poco incisiva, e soprattutto contro una regia gravata da un'eccessiva convenzionalità, incapace di dare un grammo di carisma al personaggio e inadeguata nel trasmetterne la natura diabolica e la carica di irrazionale spavento. Non ha molto senso far finta che lo spettatore non conosca Krueger, ricostruire il personaggio e ri-raccontarne da capo la storia, se poi lo si fa apparire nella prima inquadratura come un mostro qualsiasi, sciupandone l'entrata in scena con una trascuratezza del potere rivelatore dell'immagine che grida vendetta. Jackie Earle Haley, attore di ottimo livello qui completamente sprecato, fa quello che può per caratterizzare il "suo" Freddy, ma non basta sfregare i coltelli l'uno sull'altro e contro il muro, reiterare tutto il campionario di mosse tipiche del personaggio, se l'esordiente Samuel Bayer poi lo riprende con totale mancanza di fantasia, rivelandone da subito le (non) fattezze, sepolte sotto un make-up talmente pesante da azzerarne quasi completamente l'espressività. Ed è, questa del make-up, solo la più macroscopica tra le tante scelte sbagliate che hanno caratterizzato questo remake, tale da rendere inutile la presenza di un attore come Haley e ingiudicabile, per buona parte del film, la sua interpretazione.
La sceneggiatura, come si è detto, prova a costruire un passato alternativo per il personaggio, e punta le sue carte sull'ipotesi, in qualche modo già "dichiarata" dai primi trailer, di una sua possibile innocenza per i crimini che gli venivano imputati in vita. Idea utilizzata male dal punto di vista della tensione narrativa, con una soluzione banale e deludente, che ne spreca la potenziale carica di ambiguità e finisce invero per farci domandare a che pro sia stata inserita nel film. Il gruppo di adolescenti protagonisti, vittime predestinate di Krueger, è anch'esso caratterizzato in modo abbastanza convenzionale, in particolare per quanto riguarda la giovane Rooney Mara, una Nancy che sembra una copia sbiadita di quella del film del 1984, senza il realismo e la problematicità che avevano caratterizzato quest'ultima. Tutti i personaggi, in genere, restano ingabbiati nelle loro stereotipate caratterizzazioni, mentre l'ambientazione contemporanea diventa evidente solo a metà film, quando per la prima volta appare un computer connesso a Internet, in una sequenza che tra l'altro termina in modo del tutto gratuito e incomprensibile.
Si è già accennato alla regia, che colpisce soprattutto per la sua piattezza: Bayer, esordiente proveniente dal videoclip, leviga le immagini e le rende inutilmente patinate, azzera completamente il potenziale orrorifico del soggetto e rende fin troppo visibili i passaggi tra la realtà e il sogno, con cambi di tonalità nella fotografia che annullano anche un altro elemento tipico della saga, la confusione tra i due piani narrativi. Mancando di mordente e di una qualsiasi capacità di creare paura, la sua regia si fa ricordare così soprattutto per le citazioni letterali del film originale, con scene da quest'ultimo riprese tali e quali (il guanto di Freddy che esce dalla vasca da bagno, il corpo della prima ragazza uccisa racchiuso in un sacco). Poco, decisamente troppo poco, per giustificare la visione di questo film da parte di uno spettatore di vecchia data, che più che gratuite strizzate d'occhio avrebbe gradito una genuina, vera rilettura del personaggio. Nonostante tutto, il successo di pubblico non sembra essere mancato, segno forse che le nuove generazioni di spettatori hanno coordinate estetiche, e soprattutto un modo di intendere la paura cinematografica, abbastanza diversi da quelli che avevano caratterizzato le generazioni precedenti. E gli immancabili sequel (più di uno, a quanto pare, con la possibile novità del 3D) sicuramente non si faranno attendere.

Movieplayer.it

2.0/5