Recensione Osama (2003)

Il regista Siddiq Barmak ritrae la spietata condizione di repressione e violenza vissuta dalle donne nell'Afghanistan dominato dai Talebani.

Un grido di denuncia per non dimenticare

Alcuni anni fa in Afghanistan una bambina venne barbaramente giustiziata dal regime talebano per essersi travestita da maschio ed aver frequentato la scuola, da cui le donne, come da qualsiasi altro contesto sociale, erano estromesse.
La notizia fece probabilmente più scalpore in Occidente che non tra gli Afgani, abituati alla dittatura del terrore e alla lapidazione delle donne per colpe anche meno gravi. Tuttavia il cineasta afgano Siddiq Barmak, allora in esilio, rimase profondamente turbato dall'accadimento e decise di rielaborare la crudele vicenda per ricavarne un film.
Questo è l'antefatto che ha condotto alla realizzazione di Osama, coraggioso lungometraggio, girato nel giugno del 2003 in un Afghanistan non ancora del tutto libero dagli orrori del fondamentalismo.

La protagonista, Maria, ha dodici anni e vive insieme alla madre e alla nonna nella più totale miseria ed emarginazione. Suo padre e suo zio, uniche presenze maschili in grado di assicurare la sussistenza, sono morti in guerra e così la bambina è costretta a fingersi un maschio per poter lavorare e mantenere la famiglia. La piccola Maria diventa Osama. Spaurita e sofferente, viene condotta insieme ad una folta schiera di suoi coetanei, nella scuola talebana per imparare il Corano e la guerra. Oltre alla sua fragile voce, sarà proprio la palese manifestazione della sua natura biologica ad offrire a tutti l'inoppugnabile prova della sua vera identità e a condurla sul patibolo.

Rispetto alla bambina che ha ispirato Barmak, a Maria verrà risparmiata la vita, ma non di certo la libertà. Una terribile condanna, infatti, la priverà brutalmente della sua infanzia e la escluderà per sempre dal mondo.
Osama è un doloroso affresco delle immani ingiustizie perpetrate con accanimento nei confronti delle donne da parte dell'integralismo islamico dei Talebani; affiora in ogni scena la povertà, la rassegnazione, il dolore di chi è costretto a maledire la propria nascita.
Intensa la recitazione degli attori che hanno ancora vivi i ricordi delle devastazioni umane e materiali patite; tra tutti, indimenticabile la protagonista, Marina Golbahari, i cui occhi vitrei e malinconici bastano da soli a raccontare la sofferenza delle donne oppresse, la sofferenza di un intero popolo.