Recensione Sky Captain and the World of Tomorrow (2004)

Il suo essere un gran calderone ricco d'ingredienti che pur singolarmente succulenti e discretamente amalgamati non vengono mai rielaborati, rende Sky Captain un film che non riesce a risultare non solo superiore ma nemmeno eguale alla somma dei suoi componenti.

Un gioco divertente ma sterile

New York, 1939. Qualcuno sta facendo scomparire i più importanti scienziati del mondo; ad indagare sulla faccenda una reporter determinata e testarda. Quando la città viene attaccata da misteriosi robot volanti, sarà l'arrivo di un intrepido pilota noto come Sky Captain a riportare l'ordine. Guarda caso la giornalista ed il pilota sono ex fidanzati costantemente in conflitto tra loro: unendo le loro forze e le loro conoscenze capiranno che le sparizioni e gli attacchi sono collegati. Sarà l'inizio di un'avventura che li porterà prima sulle vette dell'Himalaya e poi in misteriose isole del Pacifico.

Con Sky Captain and the World of Tomorrow, Kerry Conran ha realizzato il sogno di una vita: quello di girare un film d'avventura che si volgesse ai quattro angoli del globo rimanendo (quasi) sempre seduto davanti al suo Mac. Il film ha fatto infatti finora parlare di sé più per le sue particolarità realizzative che per altro: i protagonisti hanno recitato l'intero film sullo sfondo di un enorme blue screen, e tutto il resto - scenografie, robot, veicoli e velivoli - è stato aggiunto in fase di post (si può ancora definire così?) produzione. Ma la natura ludica dell'operazione si riflette non solo nella tecnica utilizzata, ma anche nello sviluppo della trama, dei personaggi e delle situazioni.

Procediamo per gradi: dal punto di vista tecnico, Sky Captain è sicuramente in grado di attirare - se non l'interesse - la curiosità dello spettatore. I momenti più riusciti sono quelli ambientati in una New York virtuale ma concreta al tempo stesso, messa in scena con uno stile che omaggia l'art déco, il tardo espressionismo rielaborato dalla Hollywood di fine anni Trenta e persino un certo immaginario fumettistico; una New York sulla quale troneggia maestoso ed inquietante un Empire State Building simbolo di una metropoli proiettata verso il futuro, una New York ricalcata - attenzione - non sulla città reale, ma sulle rappresentazioni mediatiche (cinematografiche e fotografiche) e mediate che di essa vennero fatte negli anni Trenta e Quaranta. Una volta però abbandonata New York (ad ennesima conferma della enorme valenza iconica della metropoli americana e delle sue rappresentazioni), il gioco virtuale di Conran si fa meno interessante, rivelandosi per quello che è in realtà: un gioco appunto, che porta al parossismo - pur con una certa ironia - l'innegabile deriva del cinema contemporaneo verso artifici di natura informatica e virtuale.
Su questo punto - nodale - torneremo tra poco, dopo aver parlato delle moltissime ispirazioni tematiche di Conran. Anche a livello narrativo infatti, il film si rivela un cocktail che mescola con un certo garbato equilibrio un elevatissimo numero di influenze cinematografiche e non.

Nelle caratterizzazioni dei protagonisti e nei loro battibecchi c'è la grande tradizione della Hollywood degli anni d'Oro, che raccontava - appunto - di avventurieri e giornalisti, di guerra dei sessi e di romanticismo, di metropoli e di esotismo. Il film inizia infatti quasi come un noir, e finisce come un grande film d'avventura: il più sfacciato (ed importante) riferimento non è tanto quello alla fantascienza che parte dalla tradizione fumettistica di personaggi come Flash Gordon e Buck Rogers ed arriva fino alle derive da Guerra Fredda degli anni Cinquanta, quanto al grandissimo e fondamentale King Kong di Cooper e Schoedsack, citato non solo nell'estetica newyorchese e nell'isola abitata da mostri primitivi del dott. Totenkopf, ma soprattutto nel tema centrale del conflitto tra ancestrale e moderno.

Tante sono poi le altre influenze e le altre citazioni, ma quella su cui ora ci vogliamo concentrare è quella che permette di capire il vero senso e significato di un film come Sky Captain. In molte situazioni ed in molte immagini è infatti evidente come per Conran il riferimento primario sia quello al cinema di George Lucas: non solo la saga di Star Wars ma anche THX e - fortemente - l'avventura alla Indiana Jones. Perché riteniamo primario il riferimento a Lucas? Perché si tratta di un riferimento che nasce nelle stessa ide(ologi)a del progetto stesso del film ancor prima che nei temi e nelle citazioni estetiche e narrative. L'omaggio primario di Conran a Lucas sta infatti nel voler realizzare un mondo interamente virtuale, nell'utilizzare le tecnologie moderne per concretizzare un sogno, un'idea registica. In questo senso Sky Captain è l'anello di congiunzione (postumo) tra il cinema classico (quello citato in queste righe e molto altro) ed il cinema post-moderno e visionario di Lucas e delle sue più o meno consapevoli ed apprezzabili filiazioni.

Questa operazione ha però un limite forte e invalicabile: la sua esplicita natura ludica (che abbiamo sottolineato fin dall'inizio del nostro discorso), il suo ammiccante citazionismo, il suo essere un gran calderone ricco d'ingredienti che pur singolarmente succulenti e discretamente amalgamati non vengono mai rielaborati, rendono Sky Captain un film che non riesce a risultare non solo superiore ma nemmeno eguale alla somma dei suoi componenti. Conran cita la Hollywood classica ed il fumetto degli anni Trenta e Quaranta senza essere in grado di catturarne appieno il senso e la magia; cita Lucas ma non riesce nemmeno in minima parte a far sua quella spinta energica e propulsiva (progressista) verso il futuro e l'innovazione che è (era?) il grande talento del creatore di Star Wars. Lucas (e persino la Hollywood degli anni d'oro) tendevano al futuro: quello era cinema che è servito da spunto e fondamenta per quanto venuto dopo. Primo di un qualsiasi tentativo di rielaborazione concettuale del sui elementi fondanti, Sky Captain and the World of Tomorrow può essere una discreta avventura, a tratti divertente, ma non riesce mai a superare il suo status di gioco citazionista, né ha in alcun modo contribuito a fare di se stesso un mattoncino che vada lastricare la strada verso il futuro del cinema.