Un film duale

Uomo-natura: la potente antinomia su cui si fonda la poetica dreyeriana.

Dies irae, forse insieme a Ordet, segna uno dei picchi più elevati nel percorso dreyeriano di ricerca, sollecitazione, contrasto di antinomie.
Ma Dies irae, oltre che essere uno dei momenti più elevati della poetica del regista danese, ne è anche il passo più compiuto.

Il tremendo scontro tra oggettività e soggettività, tra immanenza e trascendenza, tra libertà e sacrificio aleggia su tutta la pellicola, ma ne è magistralmente al di sopra, sfuggente, non categorizzabile. Forse per questo Dreyer si sente in dovere di schematizzarlo al principio e alla fine, impattando e chiudendo la storia allo stesso modo, sostanzialmente: libro miniato, voce narrante (leggente), dies irae (19 terzine attribuibili a Tommaso di Celano, presto entrate nella liturgia dei defunti, rese famose dalla Messa di Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart) e l'ombra della croce.
E' proprio nell'elemento sacro per eccellenza che si vede la trasformazione netta, il contrasto lancinante del film. La normale croce latina dell'inizio si trasforma in croce goticheggiante, tumulare, della fine.

Dies irae è il film che forse trae più potenza e radici dal vissuto del regista. La latente omossessualità di Dreyer e la sua profonda "affezione" alla chiesa protestante, il legaccio che lo stringeva alla predestinazione, erano un fardello che segnò profondamente il vissuto del regista. A questo si unisca la situazione politica e sociale di quegli anni, che vedevano, proprio in concomitanza della chiusura del film, l'invasione nazista della Danimarca.
Questi due elementi sono imprescindibili per un'analisi attenta e coerente del film, che si richiama chiaramente ad una visione della vita assai vicina a quella di Kierkegaard.
La mancanza, ed insieme la necessità, di schematismo si riflettono nella dicotomia con la quale Dreyer ci propone e mette in scena i suoi personaggi.
Da una parte l'uomo così com'è, non inquadrabile in qualsivoglia catalogazione, ambiguo non per cattiveria nè per impulso, ma per istinto, istinto di felicità benigno e maligno allo stesso tempo. Dall'altra la necessità storica di piegarsi a stimoli, sollecitazioni, abitudini, costumi. Al fluire naturale (o naturalmente imposto) delle cose, insomma.
E così riemerge la già citata sofferente lotta tra un oggettivo considerato giusto, e una soggettività sofferta e mai risolta. Tutti i personaggi infatti non sono risolti nè risolutivi. La ricerca del Bene di Absolon si scontra con l'incarnazione del tradimento di questo bene, Anne. E a sua volta, la moglie cede di schianto, tradendo, alla sua ricerca di felicità, pur arrivando a desiderare, almeno in un momento del film, la piena gioia nei binari per lei tracciati.

Nel '43, una tematica del genere poco appiglio poteva avere in un pubblico, al di più interessato all'avanspettacolo o alle commedie, che in effetti bocciò il film, decretando che Dreyer aveva realizzato un film con gli stilemi del muto in un'epoca in cui il cinema muto più non era.
Dreyer, effettivamente, costruisce un film di sguardi, di scena, tenendo salda la macchina da presa, o muovendola quel che basta per seguire la mimica gestuale dei suoi attori. Tre, forse quattro volte, azzarda un carrello, per altro non descrittivo, ma coerente all'azione.
Il punto di vista oggettivo al quale Dreyer piega la sua poetica (e la sua vita) prevale nella messa in scena.

La ribellione avviene attraverso la combinazione di prova attoriale e fotografia. Dreyer dà per persa in partenza la battaglia, ma la valorizza, attraverso sottolineature di sguardi e giochi di luci e coni d'ombra quasi irreali. Si sfugge a questo intricato castello di luci ombre e sguardi solo nelle scene all'aperto, paradigma della libertà agognata, di una natura serena e non vincolante. Ma anche in questi passi Dreyer è implacabile. La macchina rimane ferma, e prende addirittura le distanze da un mondo che probabilmente capisce, ma che non riesce ad accettare.
La fissità dello sguardo, quasi ideologica, è rigorosamente funzionale all'impianto registico. Così come lo sono una marcata espressività facciale e una fotografia accentuata.

Dies irae si presenta come un lungo climax, costruito sul gioco tremendo di un dualismo filosofico, morale e religioso, ma anche di messa in scena, si esaurisce nella deflagrazione finale del diverbio tra Absolon e Anne, e la conseguente e consecutiva morte del primo. La postilla finale è solo signum non di un mancato cambiamento, ma di una normalità che si riappropria prepotentemente del suo maestoso e inappellabile incedere.
Un'opera grande e sofferta allo stesso tempo, incastonata in un modo di fare cinema antico e sofferto, che segna al contempo base di partenza e d'arrivo per l'analisi di un autore, del suo vissuto e della sua epoca.
Ma anche chiave interpretativa di una certa idea di cinema e di messa in scena.