Recensione Twisted - Ascolta la canzone del vento (2003)

Un risultato davvero modesto, per l'esordio alla regia di Matteo Petrucci: un thriller scritto e recitato male, con una regia pretenziosa che soffre della smania di stupire a tutti i costi con ogni singola inquadratura.

Un esordio da dimenticare

Questo film, che rappresenta l'esordio alla regia di Matteo Petrucci (classe 1976), ha avuto una genesi abbastanza travagliata: finito di girare nel maggio 2001 grazie a un cospicuo finanziamento statale, è rimasto "congelato" per quasi tre anni prima di riuscire ad approdare sugli schermi, in una distribuzione limitata, con un titolo "internazionalizzato" (inizialmente doveva intitolarsi solo Ascolta la canzone del vento, che è poi il titolo che appare all'inizio del film). Traversie produttive a parte, bisogna comunque dire che il risultato finale del film è molto modesto, una sorta di thriller post-adolescenziale che vorrebbe forse indagare in certi risvolti morbosi e/o malati della vita familiare borghese, ma che risulta alla fine solo un pasticcio pretenzioso e superficiale.

Il difetto principale di questo Twisted - Ascolta la canzone del vento sta in una sceneggiatura inconcludente, poco credibile, del tutto superficiale nel presentarci i personaggi e le loro vicende: l'universo malato sotteso ad un rapporto incestuoso tra fratelli resta solo immaginato dallo spettatore, e lo script non si sforza minimamente di farci penetrare le motivazioni e la singolare fascinazione che dovrebbero caratterizzare una relazione del genere. I dialoghi tra Matteo e Valentina (che sembrano usciti direttamente da una trasmissione di Maria De Filippi), riescono di fatto solo a rendere insopportabili i due personaggi nel giro di pochi minuti, complice anche una recitazione veramente pessima: ma non è questa un'antipatia voluta, funzionale al contesto del film, ma solo il risultato di una sceneggiatura che conferisce ai due protagonisti uno spessore prossimo allo zero. L'incontro di Valentina con lo psicopatico Stefano non imprime assolutamente alla trama la svolta che ci si aspetterebbe; manca anzi completamente lo sviluppo di una vera relazione tra i due, così come l'ossessione del giovane psicopatico per la ragazza resta sullo sfondo, risultando per lo spettatore poco comprensibile per non dire immotivata. Non aiuta neanche in questo caso l'interpretazione dell'attore che ha dato il volto a Stefano: se Alessandro Tiberi, che interpreta Matteo, in una battuta del film dice testualmente che "Tutti sono capaci a fare gli occhi da pazzo", ci viene da contraddirlo dicendo che no, Emiliano Coltorti non ne è assolutamente capace, e la prova è proprio lì, sullo schermo. Parlando più in generale, la rappresentazione della follia di Stefano appare convenzionale, stereotipata, poco credibile: non basta un televisore perennemente acceso su squallidi spettacoli del sabato sera e un pianoforte suonato mentre la vittima di turno si dibatte a terra a farci entrare nell'universo malato di un folle, e di questo il regista, che ha nel suo bagaglio di spettatore tanto Henry - Pioggia di sangue quanto l'hongkonghese The untold story, dovrebbe essere ben consapevole.

Petrucci è un appassionato fruitore di cinema orientale, e questo suo interesse si evince tutto dal film: la composizione delle inquadrature (con due personaggi che guardano la macchina da presa ripresi spesso in campo medio o lungo) ha molto di certo cinema giapponese contemporaneo, così come il ritmo volutamente rallentato di larghi frangenti del film. Il problema è che questo modo di girare appare qui più pedissequa imitazione che consapevole rielaborazione, considerando anche che quello che manca è un clima che giustifichi e dia un senso a tale approccio alla regia. Alcuni lunghi piani sequenza, poi, risultano sterili e francamente stucchevoli (uno per tutti, il reiterato andirivieni della macchina da presa tra il bagno in cui Stefano sta smembrando una sua vittima e il soggiorno del giovane, scena poco funzionale per non dire gratuita). Una regia che cerca di ricalcare modelli noti e amati, quindi (si veda anche la sequenza dei due fratelli davanti al mare, chiaro omaggio a Takeshi Kitano), ma che manca, almeno per quello che si può vedere in questo film, di uno sguardo personale e consapevole.

Un film sbagliato, quindi, un esordio purtroppo infelice sotto tutti i punti di vista: scritto e interpretato male, diretto in modo manieristico e con l'apparente smania di dimostrare un proprio tocco (quando probabilmente, con tante influenze diverse, il regista deve ancora trovarne realmente uno). Magari andrà meglio la prossima volta, a Petrucci, auspicabilmente volando più basso e non pretendendo, a tutti i costi, di stupire lo spettatore con ogni singola inquadratura.

Movieplayer.it

2.0/5