Recensione Il grande Lebowski (1998)

I Coen, questo i loro detrattori non potranno negarlo, con questo film, si sono definitivamente ritagliati uno spazio nel nuovo cinema indipendente americano, se a qualcuno Fargo non fosse sembrato sufficiente.

Un compassato eroe in bermuda in California

Jeffrey Lebowski è il Drugo (The Dude in originale): ultraquarantenne outsider, poco cresciuto e poco integrato nella società contemporanea. Irresponsabile, forte consumatore di droghe leggere e di cocktail white russian, è l'uomo più pigro e flemmatico di Los Angeles, ma all'improvviso si trova all'interno di storie più grandi di lui per un caso di omonimia. Improvvisatosi moderno e improbabile Philip Marlowe, con il supporto del suo svitato compare ossessionato dalla guerra nel Vietnam, si dovrà districare tra strani rapimenti, riscatti, nichilisti, poliziotti nazisti, produttori porno e altre figure paradossali, prima di tornare al suo amato bowling, dove a tifare per lui ci sarà il narratore baffuto di tutte le sue storie, un cowboy che ama il Drugo, anche se dice troppe parolacce.

Dopo il folgorante Fargo, il nuovo scherzetto dei fratelli Joel Coen e Ethan Coen è una rivisitazione psichedelica e sopra le righe del noir investigativo classico (la struttura è fondamentalmente quella de Il grande sonno di Raymond Chandler), un film che evidenzia ulteriormente il loro enorme talento. Inquadrare in un genere definito quello che è a tutti gli effetti il loro film più marcatamente comico (prima dell'attuale adesione alla vera e propria commedia), è impresa ardua e probabilmente di scarso rilievo. Paradossalmente è però l'unico loro film in cui all'interno della loro rappresentazione della "commedia umana" sia presente un eroe a tutto tondo, per quanto abbia le strambe sembianze del Drugo. E' a lui che è affidato una plausibile identificazione con lo spettatore oltre che una posizione "morale" (Leboski è ironico, distaccato, generoso e gioca con la vita senza esserne soggiogato).

Il film poggia su una sceneggiatura scoppiettante e ricca di umorismo anche se leggermente confusionaria, una regia straordinaria, delle musiche avvincenti e metonimiche e delle ottime interpretazioni dal protagonista Jeff Bridges ad un irresistibile John Goodman, senza dimenticare Steve Buscemi e John Turturro, da sempre legati ai due fratellini dell'altra Hollywood.

I Coen, questo i loro detrattori non potranno negarlo, con questo film, si sono definitivamente ritagliati uno spazio nel nuovo cinema indipendente americano, se a qualcuno Fargo non fosse sembrato sufficiente. Il loro sguardo di divertito distacco, la loro apologia dell'assurdo, i loro luoghi e lo stesso uso di un cast che conta dei veri e propri fedeli al verbo Coen, li rendono sempre più inconfondibili. Eppure, nonostante siano universalmente ammirati per le loro doti di cineasti-filosofi, di film in film generano lo sdegno di una certa critica che ama definirli due grandi artigiani di un cinema senz'anima, tutto divertimento e citazioni (sarebbe da interrogarsi a questo proposito su quale sia la linea di demarcazione tra citazionismo vacuo e autoreferenziale e citazionismo colto e con finalità di ripensamento espressivo - se questa linea sia stata idealmente tracciata, come non inserire i Coen nella seconda schiera?).

Alla sua uscita, anche Il grande Lebowski, nonostante, o forse in virtù di questo, ottenne un ottimo consenso di pubblico (nel contesto di un prodotto che potremmo definire di semi-nicchia) fu accusato di una certa vacuità intellettualistica, tipica, si rilevava, del cinema dei Coen, un cinema dove sarebbe impossibile ridere, ma al massimo ghignare, un cinema tutto scopiazzature e eccessi grotteschi. Un punto di vista alquanto discutibile che postula automaticamente che una comicità più ricercata e caricaturale non sia divertente, e che nega un semplice fatto: il pubblico si divertì eccome nel seguire le bizzarre avventure dell'uomo più pigro del pianeta.

Siamo infatti di fronte alla pellicola più esplosiva, eccessiva e divertente del duo Joel & Ethan. Un viaggio circolare ricco di situazioni iperreali, di richiami cinefili, in adesione non acritica all'estetica post-moderna. Il film non rivisita i generi ma li usa come scheletri narrativi per l'immaginario, materiali stereotipizzati come il noir, il western, il musical, il gangster e lo sport-movie vengono centrifugati in omaggio al valore della fantasia, trasformando progressivamente il plot in un catalogo di immagini e di rimandi al cinema classico e all'immaginario culturale e musicale degli anni Sessanta.

E' vero, nel cinema dei Coen, i personaggi colpiscono per distanza emotiva ed eccesso di ironia rendendo impossibile comprendere qual è in sostanza lo sguardo dell'autore. Ma se dietro questa strategia ci fosse l'obiettivo mirato di nasconderlo, questo sguardo? Se fossero i Coen stessi a non accettare l'assurdità del reale e a preferire che la realtà e la verosimiglianza siano relegate sullo sfondo, sublimate e costrette a diventare la somma di una galleria di personaggi bizzarri? In questo criticato trionfo dello stile sulla sostanza, e nella perdurante riproposizione di questa dicotomia di origine estetica, è quindi probabilmente possibile osservare l'estrema rinuncia a rappresentare una società che di sostanza ne ha ben poca, un mondo grottesco, una realtà di celluloide dove tutti assomigliano a qualcuno, dove tutto è già sentito, dove i valori sono luoghi comuni e dove le teste sono palle da bowling.