Recensione Codice 46 (2003)

Sulla scia di Minority Report, Winterbottom ci regala un film, probabilmente troppo formale, ma sicuramente affascinante.

Un breve incontro nel futuro

Alcuni registi durante la loro carriera amano spesso confrontarsi con generi (e meta-generi) cinematografici differenti, coerenti con la poetica che li contraddistingue. Michael Winterbottom, dopo avere affrontato la letteratura, la guerra, i problemi famigliari, l'omosessualità, con Codice 46 entra in un mondo futuristico, ma non lontano, raccontando un "breve incontro" fra un uomo e una donna che vivono due volte la loro istantanea storia d'amore. Sempre con qualcuno al di fuori che ci osserva. Shangai è il luogo-non luogo in cui si svolge questa sequenza di incontro e abbandono fra William (Tim Robbins), ispettore di un'assicurazione che si reca presso un'azienda che produce e rilascia le "papelles", i visti per entrare nei grandi centri abitati, e Maria (Samantha Morton), impiegata della stessa azienda. William, grazie alla contrazione di un empathy virus, riesce a leggere nella mente delle persone e scopre proprio che Maria è l'indiziata numero uno per questa fuoriuscita di passaporti non autorizzati. Il loro incontro, la loro conoscenza, lentamente genera un magnetismo dai quali entrambi non riescono a sfuggire. Ma sarà il codice 46 a tradirli, una legge che prevede che, per evitare le clonazioni, due essere umani che hanno un DNA similare superiore al 25% non possono unirsi...

Sulla scia di Minority Report (di cui, non a caso, Samantha Morton è una dei protagonisti), Winterbottom ci regala un film, probabilmente troppo formale, ma sicuramente affascinante. Se Steven Spielberg infatti, poteva concentrarsi sull'ambiente in cui si svolgeva l'azione, il regista inglese si fa coinvolgere dai due personaggi, e muove la sua macchina da presa inseguendo gli attori negli spazi freddi di una società descritta ai limiti dell'apatia, fra i colori trascinati delle inquadrature e l'asetticità della società in cui due si incontrano. Ciò che è reale sono gli occhi e i capelli di Maria e il sorriso di William, che escono da uno stato ipnopedico (l'ipnopedia descritta dallo scrittore Aldous Huxley ne Il nuovo Mondo, è un lavaggio del cervello imposto fin dall'infanzia per dividere per classi gli individui senza incorrere in problemi sociali) per poi ritornarci inevitabilmente, poiché dal "grande fratello" non si può sfuggire se non per qualche attimo, quello dell'amore.
Le atmosfere sono rigide, e alternano i gelidi e azzurri habitat che rispecchiano la condizione esistenziale, alla vitalità della libertà, e la scena della discoteca ne rimane un simbolo.
La musica d'altro canto riveste un ruolo importante poiché velocizza e rallenta l'azione con ritmi ipnotici che ci riportano al Trip Hop bristoliano.

Non un film facile per chi ama lasciarsi coinvolgere dalle immagini, ma nemmeno per chi cerca interpretazioni nascoste e recondite. Winterbottom mette le emozioni nel freezer per aprirlo solamente quando lo spettatore sta morendo di fame descrivendo un' intermittente visione del futuro.