Recensione Follia (2005)

Il film di Mackenzie sembra nato vecchio. E' questo il limite più evidente di una pellicola che per ambientazione, temi e narrazione non riesce mai a catturare lo spettatore sotto nessun aspetto.

Un'adultera non redenta

Entra nel vivo la selezione dei titoli in concorso a Berlino con la presentazione alla stampa di Asylum, deludente ritorno dietro la macchina da presa di David Mackenzie, dopo il discreto esordio Young Adam.
Tratto dal romanzo di Patrick McGrath edito in Italia con il titolo Follia, il film racconta una storia decisamente convenzionale per il grande schermo: nell'Inghilterra degli anni '50 una donna ricca ed elegante si innamora di un artista con gravi turbe psichiche e un passato burrascoso. Come da copione tradimento e passione ossessiva saranno il motore di una tragedia dai toni decisamente moralistici con tanto di parentesi psichiatriche ed incedere da crime-story.

Il film di Mackenzie sembra nato vecchio. E' questo il limite più evidente di una pellicola che per ambientazione, temi e narrazione non riesce mai a catturare lo spettatore sotto nessun aspetto. Un cinema leccato e incapace di confrontarsi con la contemporaneità (senza per questo volere fare una cieca esegesi del racconto della nostra epoca) che suscita una questione caustica quanto inevitabile: ha ancora senso, o se si preferisce richiamo, oggi un cinema in perenne bilico tra una tale drammaticità stucchevole e superata (chi si strugge più terribilmente per la tragicità di un adulterio?) e una vacua e poco ricercata ricerca della caratterizzazione psicologica e dell'ammiccamento allo spettatore.

Chiariti i limiti strutturali, è necessario aggiungere che il regista scozzese ci mette anche del suo nell'affossare il progetto, non risparmiandoci stereotipi, macchiette e clichè narrativi nel corso dello sviluppo del plot. Passano così in rassegna i lati più derivativi degli archetipi più abusati: la donna insoddisfatta della sua dimensione familiare, l'artista maledetto, il marito tutto lavoro e niente passione, lo scienziato illuminato e la comunità accusatrice; tanto che le scivolate nel farsesco si fanno progressivamente preponderanti e finisce per emergere il carattere conformista della pellicola.

Anche sotto il fronte delle interpretazioni il film non convince: se Ian McKellen, prima dello sbragamento collettivo del plot riesce a dare credibilità ad uno psicologo scritto con poca ispirazione, in virtù di tutto il mestiere e il talento di cui dispone, assolutamente trascurabile è l'interpretazione della protagonista Natasha Richardson, ma soprattutto è Marton Csokas nel ruolo dello psicotico e appassionato artista a dimostrarsi impossibile da apprezzare.