Recensione Cappuccetto Rosso Sangue (2011)

Che ci si trovi di fronte a vampiri o a licantropi poco importa, perché sia la saga di 'Twilight', sia questa rielaborazione fiabesca sui generis (che intreccia l'archetipo di Cappuccetto Rosso con la leggenda del lupo mannaro), non sono tanto dei racconti horror, quanto piuttosto vere e proprie metafore dei turbamenti e dei languori emotivi della pubertà, legati alla prima scoperta del sesso.

Tu devi essere il lupo

Che la fiaba di Cappuccetto Rosso abbia, più o meno scopertamente, a che fare con il sesso non è di certo una novità, come dimostra la foltissima letteratura che ha analizzato, in particolare in chiave psicanalitica, questo celeberrimo racconto popolare, tramandato prima da Charles Perrault alla fine del Seicento e poi dai fratelli Grimm oltre un secolo dopo.
D'altronde non mancano nemmeno al cinema le versioni, le rielaborazioni e gli adattamenti di Cappuccetto Rosso che insistono, anche in questo caso in modo più o meno esplicito, sulla dimensione erotica: dall'esilarante e sfrenato Red Hot Riding Hood del genio di Tex Avery (1943), dove la protagonista della fiaba si trasforma in una ballerina da night club tutto pepe, ai toni invece decisamente più morbosi e inquietanti di In compagnia dei lupi di Neil Jordan (1984).

Questo preambolo serve semplicemente a dire che il Cappuccetto Rosso Sangue di Catherine Hardwicke non ha davvero inventato nulla, come del resto nemmeno la saga vampiresco-adolescenziale di Twilight; giacché da sempre, nel mito come in letteratura, la dimensione della paura e quella del sesso costituiscono un binomio inestricabile. Semmai c'è da rivelare come di recente il cinema stia diventando sempre più a misura del pubblico dei teenager, e dunque anche i protagonisti delle fiabe si adeguano al nuovo trend adolescenziale, come ha già dimostrato l'Alice in Wonderland di Tim Burton, trasformatasi in una ragazzina emancipata e pronta a conquistare il mondo.

Che ci si trovi di fronte a vampiri o a licantropi poco importa, perché sia la saga ideata da Stephenie Meyer, sia questa rielaborazione fiabesca sui generis (che intreccia l'archetipo di Cappuccetto Rosso con la leggenda del lupo mannaro), non sono tanto dei racconti horror, quanto piuttosto vere e proprie metafore dei turbamenti e dei languori emotivi della pubertà, legati alla prima scoperta del sesso.
E dunque il dirompente e selvaggio lupo mannaro del film di Catherine Hardwicke non rappresenta altro che l'irrefrenabile e indomabile pulsione di Valerie (una languida Amanda Seyfried), follemente innamorata del tenebroso (e un po' emo) taglialegna Peter (Shiloh Fernandez), ma costretta a sposarsi in un matrimonio combinato con il facoltoso fabbro Henry (Max Irons), incapace però di domare il fuoco che arde dentro di lei.
Dello scheletro della fiaba così come la conosciamo rimane ben poco, se si eccettua il personaggio della nonna, che però solo lontanamente rimanda alla figura originaria. Questa nuova rielaborazione, invece, pare più attingere alla mitologia del lupo mannaro, che in questo modo accentua in maniera ancora più scoperta il sottotesto relativo alle manifestazioni erotiche puberali. L'apparizione del lupo è infatti legata alla cosiddetta "Luna di sangue", una particolare congiunzione astrale che permette al licantropo di possedere le anime degli esseri umani. Per sventare questa minaccia viene addirittura chiamato un rappresentante della Chiesa, l'austero e violento Padre Solomon (Gary Oldman), il cui personaggio incarna la funzione repressiva e moralizzatrice della religione.

L'insistere su questa particolare chiave di lettura, di per sé, non rappresenta un male. Il problema di Cappuccetto Rosso Sangue è che la sceneggiatura elaborata da David Johnson non ha neppure il coraggio di spingersi alle estreme conseguenze su questo versante, ma preferisce trasformare la seconda parte dell'intreccio in un ben più tradizionale giallo, fondato sul classicissimo schema del whodunit. Infatti, dato che il lupo mannaro può camuffarsi in sembianze umane, l'unico elemento che si è escogitato per tenere desta l'attenzione dello spettatore è quella di nasconderne l'identità, che viene rivelata solo nell'inevitabile colpo di scena finale. Di certo si tratta di un meccanismo piuttosto esile e ormai abbondantemente abusato, che difatti non basta a garantire l'interesse del pubblico.
Catherine Hardwicke, d'altronde, non sembra nemmeno troppo interessata a mantenere vivi gli effetti di tensione e di suspense tipici del thriller, ma preferisce concentrarsi sulla love story e sulla rappresentazione degli umori adolescenziali, fornendo, come già in Twilight, un'estetica languida e patinata, caratterizzata da effetti flou e cromatismi esasperati, e proponendo una visione tormentata e melodrammatica dei turbamenti amorosi.