Totò, bombetta e dispetti: l'altra faccia di un Principe "mascalzone"

La guapperia, le bassezze, i personaggi che per lo più sono piccoli manigoldi che, divertiti, la fanno sempre franca. Alla base della comicità di Totò c'è una punta di cattiveria, che nasce dall'osservazione.

Dispettoso, irriverente, maldicente. A volte persino godereccio nel vedere il male nell'altrui sorte. Questa è la maschera di Totò, il "tipo" a cui il cinema che lo vedeva protagonista o anche attore di contorno ci ha abituati. Una risata sghemba, uno sberleffo, una presa in giro non solo del potere alto, ma anche e soprattutto del prossimo. Di quel prossimo che è come te o appena più fortunato di te, e allora quel qualcosa in più glielo devi togliere. Frega il tuo prossimo prima che lui freghi te, una filosofia divenuta sin troppo attuale ormai in tutta Italia, ma che, ai tempi, era circoscritta al modo di pensare tipico di certa napoletanità, quella che la Napoli bene definiva "cafona". Totò era nato figlio di nessuno, a seguito di una relazione clandestina di un nobile con sua madre. Cresciuto nel Rione Sanità, l'epicentro di quella "guapperia" e di tutti quegli atteggiamenti che andarono a nutrire e ad accrescere il suo repertorio.

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Se vuoi far ridere, devi essere cattivo. La comicità più tipica di Totò, oltre ai noti calembour e al non-sense, perle del varietà di tutta Europa prima e del mondo poi, era proprio caratterizzata da questo elemento: la cattiveria. Quell'egoismo per cui toglie letteralmente il pane di bocca (anzi, una cipolla) a sua figlia in Miseria e nobiltà. Quelle ragioni di pancia, ma proprio di stomaco, che guidano le azioni dei guappi sono alla base di tutta la comicità di Totò. Mangiare, aver la pancia piena. E, per estensione, aver piena anche la borsa. È la fame a guidare le gesta, non bisogni più aulici. La comicità di Totò fu quella del popolo, almeno finché non lo scoprì Pier Paolo Pasolini, solo un anno prima della sua morte. Ma Totò non era quello, anche se avrebbe potuto esserlo sempre. Il grande attore, anche drammatico, che era in lui, ha sempre ceduto il posto all'istrione, al prorompente burattino alla ribalta. Ricevendo il Nastro d'Argento per Uccellacci e uccellini, il suo discorso di ringraziamento fu anch'esso uno sberleffo.

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Una cattiveria, poi, di bassa lega, che non porta a un reale arricchimento o a svolte epocali nella vita. E resta per lo più impunita. Come nel caso del suo personaggio ne I due marescialli: un landruncolo davvero di bassa lega, ma che riesce sempre in qualche modo a farla franca. Personaggi molto basici, abbozzati a carboncino in fase di script e che poi prendono tridimensionalità grazie a un corollario di smorfie e di gesti tipici. Perché ciascuno di loro era frutto di attente osservazioni in mezzo al popolo, dal quale Totò mai si discostò. "Non sono un uomo colto e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, aver letto di più, aver guardato di più", dichiarò durante un'intervista rilasciata negli ultimi anni di vita, nei quali un autentico fervore per la lettura si era impossessato di lui. "Vorrei essere stato più curioso perché non c'è cultura senza curiosità. Io non amo curiosare, mentre sono abituato a osservare. Tutti i miei personaggi nascono dall'osservazione, non dalla cultura".

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Di bombette e dispetti

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Questa "cattiveria" non era solo tipica di Totò, ma trovava espressione in altri rivoli diversi anche in altri, precedenti, esponenti di una immensa comicità. Con le loro bombette, altri due grandi avevano portato sul palco prima e sullo schermo poi una maschera che nasceva dall'osservazione del popolo e delle sue manie, delle sue stranezze e delle sue bassezze. Quella un po' malinconica di Buster Keaton e quella dolceamara di Charles Chaplin. Totò però non ebbe mai l'ardire di paragonarsi al grande divo angloamericano: "Credetemi, mai nella vita ho avuto l'ardire di paragonarmi a quel genio di Charlie Chaplin", dichiarò in un'altra intervista, sempre piuttosto tardiva. Certo Totò non fu mai regista dei suoi film, come Chaplin e Keaton, e aveva un assoluto bisogno di spalle comiche, come quella che trovò in Peppino De Filippo, amico e compagno di tante avventure al nitrato d'argento. Tuttavia l'osservazione delle persone che li circondavano li ha sempre accomunati tutti. E dal basso, l'ingrediente "cattivello", anche se in modi diversi è arrivato sempre. Il popolo deve sopravvivere, il bisogno primario è sfamarsi, il cosiddetto "mettere insieme il pranzo con la cena", e per farlo molto spesso si rivale sul suo simile, raramente si ribella al potente. È in questa filosofia del "cane mangia cane" la caratterizzazione della maggior parte dei personaggi di Totò, scritti da grandi autori del cinema a lui contemporaneo e, via via più spesso, anche da lui stesso. A volte nati direttamente sul set, con il piccolo pubblico a Totò assolutamente necessario, composto dai macchinisti e dai membri della crew: senza pubblico, Totò non riusciva a far ridere.

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L'altro volto della comicità

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Il paradosso in questa lucida osservazione delle meschinità umane è che Totò (come pure i succitati Chaplin e Keaton) era un esempio di trasparenza e di onestà. E molto spesso anche di enorme generosità. Forse proprio dal conoscere profondamente le bassezze derivava un desiderio di diversificarsi, lui che da quel mondo era uscito da solo, nonostante la madre che avrebbe voluto vederlo in seminario. "Meglio nu figlio prevete ca nu figlio artista", soleva dirgli. Forse quella sua cattiveria sulla scena e sullo schermo altro non era che un'altra faccia della sua onestà. Di pari passo alle sue parole: "Una lacrima è solo l'altra faccia della risata", così la sua cattiveria era solo un'altra faccia della sua grande bontà.