Recensione Tattoo (2002)

Dalla Germania un nuovo interessante thriller che si ispira ai più noti successi americani. Protagonisti tatuaggi e strani collezionisti.

Tattoo or not tattoo: questione di pelle

Ultimamente l'industria dello spettacolo tedesca sta cercando di allargare le proprie esportazioni: dopo i mille e più telefilm polizieschi ecco il cinema, di cui quei pochi lavori che arrivano anche in Italia sono di discreto valore o quantomeno meritevoli di una serata al cinema. Dopo il buon successo di The experiment (Das experiment) di pochi mesi fa ecco la replica di Tattoo, del giovane Robert Schwentke, regista che viene proprio da alcune prove in serie tv tedesche e qui al suo debutto cinematografico.
In patria e da diversi critici è stato definito il "nuovo Seven" e già dopo poche scene non si può dar loro torto: Schwentke si è sicuramente ispirato a David Fincher, come ambientazione e ritratto dei personaggi, ma il risultato ottenuto è ben diverso, seppur evidenziando diversi pregi dello stesso regista tedesco. Ma più in generale si può parlare di influenza del recente filone, sempre americano, dei thriller e serial killer che puntano su una notevole dose di cruenza di temi e di immagini, fotografia piuttosto dark, una coppia come protagonisti, basti citare anche Il collezionista, il quasi omonimo Il collezionista di ossa...
Nonostante una prima parte non certo brillantissima si notano subito quelli che saranno i punti di forza del film: i due protagonisti, Minsk e Schrader vengono completamente assorbiti nel caso, anzi, fanno sì che la loro vita privata diventi ciò su cui devono indagare, fino quasi ad essere costretti non più a ragionare ma ad essere come travolti dagli eventi senza possibilità di reagire, sperando solo di tornare a casa vivi la sera come catechizza Minsk. Molto bravi i due attori (rispettivamente Christian Redl e August Diehl - sorretti da un ottimo doppiaggio), le cui facce stravolte ed espressioni spesso senza emozioni fanno da filo conduttore alla storia, instaurando un buon coinvolgimento nello spettatore. Non è da meno la scura e cruda fotografia, il cui obiettivo principale è mostrarci ambienti degradati, angoli bui e mal frequentati, sfruttando in più occasione l'aiuto della pioggia, ad accrescere l'angoscia, protagonista delle scene più drammatiche.
Il grande problema del film è sicuramente la sceneggiatura, proprio dello stesso Schwentke, che spesso viene lasciata in secondo piano in favore dei virtuosismi e della mano del regista che vuole dare dimostrazione di saper usare la macchina da presa. Così ci troviamo di fronte a clamorose incongruenze e forzature alternate ad una buona dose d'inventiva, ma soprattutto spesso Schwentke si lascia andare ad una crudeltà d'immagini piuttosto gratuita, probabilmente dovuta ad improvvise mancanze d'idee su come coinvolgere chi sta seduto alla poltrona. Fortunatamente il giovane regista ha saputo darsi un freno nella seconda metà del film, ed in particolare in una delle scene più drammatiche ed intense del film (Minsk e la figlia) si affida completamente alla prova di Redl, centrando in pieno il bersaglio e, forse per la prima volta nell'ora e mezza di film, spiazzando il pubblico. Peccato poi per il finale, eccessivamente sbrigativo e forzatamente ad effetto, come vuole la tradizione dei thriller americani cui Tattoo, dicevamo, s'ispira.
Alla fine (attenzione al "finalino" durante i titoli di coda) rimane un solo dubbio: ci verrà voglia di un tatuaggio perché colpiti dall'incredibile bellezza dei lavori visti nel film o ne staremo ben lontani?