Recensione Bes Vakit (2006)

Il film di Erdem riesce ad essere delicato anche quando racconta episodi brutali, sa farsi perdonare le poche cadute di stile, la ricerca puntuale dell'inquadratura ad effetto e l'eccessiva lunghezza.

Svegliatevi bambini

Crescere ammazzando i propri genitori: complessi primordiali sempre più difficili da superare. La neonata Festa del Cinema di Roma apre il suo concorso con un film che ha già ottenuto larghi consensi e numerosi riconoscimenti in mezzo mondo, una battaglia generazionale, intima e tutta raccolta nei sentimenti conflittuali che si muovono dentro i bambini, che impegna l'età della crescita e risolve in tragedia il passaggio più delicato nella vita di un uomo. Non si racconta nulla di particolarmente originale in Bes Vakit: piccoli Edipo ed Elettra turchi in lotta chiusa con i propri genitori, che sotterrano il tempo dell'innocenza nell'odio, nella vergogna e nella gelosia verso padri rimasti due passi indietro e mille carezze lontani. Ma i ritmi e i modi con cui Reha Erdem racconta il lento risveglio di questi tre bambini dalla menzogna dell'infanzia sono da antologia, e la tenerezza del suo sguardo, che fugge il realismo e affonda nel lirismo più sfacciato, sa tenere caldo lo spettatore, senza chiedergli in cambio lacrime o struggimenti esasperati.

Film elegiaco, rigoroso, sullo stile di certi recenti film russi, visivamente abbagliante, Bes Vakit apre il respiro nei territori immacolati delle montagne con i piedi nell'acqua e la testa ad un metro dalle nuvole, e trattiene il fiato dentro le case di pietra, facendo dei rapporti familiari un'apnea in cui è impossibile riconoscere i bisogni propri e quelli degli altri, dove ci si tocca solo per farsi male, schiacciati dalle debolezze più che dagli istinti barbari. La piccola comunità ritratta da Erdem abita un paese della Turchia rurale che sembra non aver mai saputo di quanto il mondo nel frattempo sia girato in fretta e in cui la giornata è scandita regolarmente dai cinque richiami alla preghiera che fermano ogni attività e ricordano col canto che si perde nell'aria quanto grande sia Allah. I tre piccoli protagonisti si muovono senza tregua (con la steadicam che li accompagna spesso di spalle) in quei luoghi vergini, ma in realtà sono fermi, addormentati, imbalsamati nei loro crudi pensieri e nei sogni più ingenui, come raccontano le suggestive immagini dei loro corpi distesi immobili sulla terra, ricoperti d'erba, di pietre, di avanzi di vita e natura, mentre una poesia continua a ripetere: svegliatevi bambini, è tempo di crescere.

I bambini non capiscono i loro genitori. Li spiano fare l'amore e non riescono a distinguere questo dalla brutalità del sesso tra gli asini, li guardano con presunzione diventare vecchi e indebolirsi nella malattia, li fissano e si sentono prosciugare quando li vedono umiliati dai loro stessi padri. Tre generazioni di uomini si perdono così, nell'impossibilità di riconoscersi e di assolvere con coraggio il proprio ruolo, distratti dai problemi più pratici e dai dettati religiosi. Il film di Erdem riesce ad essere delicato anche quando racconta episodi brutali (come il sacrificio della pecora e il gesto estremo di un bambino) e sa farsi perdonare le poche cadute di stile (una su tutte l'imbarazzante sequenza dell'incidente del neonato), la ricerca puntuale dell'inquadratura ad effetto e l'eccessiva lunghezza. E a rendere ancor più prezioso questo poema visivo ci sono i tappeti d'archi di un musicista straordinario come Arvo Part, uno dei compositori contemporanei preferiti dal cinema, le cui musiche hanno contribuito a far grandi film come Gerry di Gus Van Sant (ancora vergognosamente inedito in italia) e Heaven di Tom Tykwer.