Storaro, Botta e la luce nel cinema

Un altro dialogo locarnese tra cinema e architettura: due grandi, Vittorio Storaro e Mario Botta, parlano del ruolo della luce.

L'8 agosto 2005 si è tenuto a Locarno un incontro tra il grande architetto Mario Botta, che ha illuminato tra l'altro anche gli interni della Scala di Milano, e Vittorio Storaro, il direttore della fotografia tre volte premio Oscar. L'argomento era la funzione della luce nel cinema e nell'architettura.

Vittorio Storaro: Il cinema è davvero un'arte collettiva, è un po' come un'orchestra fatta di tante menti: c'è chi si occupa della scrittura, chi della scenografia, dei costumi, o ancora dell'illuminazione (che è colui, come me, che scrive con la luce in movimento, che visualizza uno spazio e dei colori), c'è il montatore (che fornisce la suggestione del ritmo e del tempo) e il musicista. E poi c'è il regista, che è il direttore d'orchestra, e deve saper coordinare ogni solista all'altro per trarne una melodia.

Mario Botta: Anche l'architettura è una forma collettiva, nella quale concorrono varie figure. È un atto di trasformazione della Natura (terreno) in Cultura (struttura). L'architettura è l'espressione formale della storia, che è una storia collettiva.
Il cinema può essere considerato un archivio delle nostre città perché costituisce un archivio dei comportamenti umani, ma anche una struttura dell'immaginario collettivo, in quanto rende partecipe la collettività e le sue interpretazioni.

Vittorio Storaro: Cocteau diceva che il cinema è un sogno che si sogna insieme. Prima del cinema esisteva la pittura, che ha portato nei secoli alla scoperta del costume, all'intervento dell'ombra, etc. Questo ha preparato noi cineasti sul percorso delle arti visive. Per fare il mio mestiere serve conoscere la storia dell'arte, serve avere cognizioni di architettura, per poter dare significato a ciò che si mostra. E purtroppo le scuole di cinema non preparano in questo ambito. Tenendo sempre presente che le forme vanno usate nel cinema come forme plastiche per raccontare una storia, vorrei denunciare l'ignoranza sull'uso che di uno spazio da riprogettare si fa nei film.
Nel mio lavoro cerco di prendere un concetto e trasformarlo in significato visivo, pratica che genera la metafora. Nell'illuminare Locarno [in questi giorni si tiene a Locarno la mostra Scrivere con la luce, su progetti di illuminazione della città fatti da Storaro, N.d.R.], ho voluto usare la luce che deriva dalla fantasia, dall'interpretazione.
Come in musica vi sono le note, e in letteratura le parole, nell'immagine vi sono i colori. Il colore va conosciuto molto bene: ne vanno studiati i significati, il potere. Se si prendono come esempio, invece, alcuni prodotti odierni come i videoclip, vi si riscontra solo volgarità visiva, frastuono, overdose di colore.
Avrei delle domande per Botta. Una volta disse uno studente di architettura che ogni piazza del mondo è composta concettualmente di quattro elementi: aria, acqua, terra, fuoco. Trova che sia vero? E ancora: quale è la sensazione che deriva dalla luce e quindi dal colore? E perché sembra che gli architetti abbiano paura del colore?

Mario Botta: La dissertazione di Storaro mi è piaciuta molto, perché mostra come per un mestiere apparentemente tecnico ci voglia un approccio umanistico, che quindi sottenda un concetto, una conoscenza.
L'architetto genera lo spazio attraverso la luce naturale: la configurazione dello spazio, dunque, parte dalla luce e dal ritmo solare della vita umana. La luce naturale - mobile, filtrante - ci parla della memoria: l'architetto si confronta col già vissuto. L'architetto dà forma a esigenze collettive, storiche. La luce è un elemento astratto, che prende forma attraverso i materiali, la geometria: superfici che poi danno appoggio agli spazi stessi.
Storaro crea spazi con la luce. Il cinema evoca le sensazioni, l'architettura edifica spazi concreti. Anche la luce artificiale ha bisogno di evocare un significato, un concetto. L'uomo ha bisogno di emozioni che vanno legate alla sua storia. L'architettura però è anche scenografia. La cultura contemporanea rifugge il colore - il massimo della trasgressione è l'ocra! - e l'illuminazione naturale, e questo è un retaggio di Bauhaus [l'architetto Walter Gropius fondò l'Istituto d'Arte e Mestieri Bauhaus nel 1919 in Germania. Riprendendo alcuni temi del socialismo, la filosofia del Bauhaus voleva portare arte e design nell'ambito della vita quotidiana. Gropius considerava artisti e architetti come artigiani e sosteneva che le loro creazioni dovessero essere pratiche e abbordabili. Lo stile caratteristico del Bauhaus era semplice, geometrico e accurato. Nel 1933 la scuola fu chiusa dai nazisti con l'accusa di essere un centro di intellettuali comunisti - N.d.R.].

Vittorio Storaro: Ho avuto la fortuna di una figlia (Francesca) che ha studiato architettura ed è stata mia "insegnante", perché sentivo il bisogno di avere queste conoscenze. Devono esserci insegnanti di Architettura nelle facoltà di Illuminazione, e viceversa. Molti ambienti sono illuminati genericamente, e l'unica funzione della luce diventa quella di non far inciampare la gente. La luce deve essere coerente e valorizzare una forma. Il cinema e tutte le arti visive esistono non come realtà, ma come interpretazione.
Sono riuscito a fare Un sogno lungo un giorno di Coppola a Las Vegas quando ho capito la funzione della luce artificiale costante presente in città: la luce favorisce l'attività, l'eccitazione, e quindi anche il gioco d'azzardo.
Per quanto riguarda la reinterpretazione della metropoli da parte del cinema, occorre nuovamente sottolineare che per noi la cosa fondamentale è la storia, che ci dice che quegli eventi avvengono in quell'ambiente. Coppola, nel periodo in cui girava Apocalypse Now, leggeva Le affinità elettive di Goethe, e fu a quella storia che si ispirò per Un sogno lungo un giorno: scelse Las Vegas perché voleva un luogo il più artificiale possibile. Abbiamo ricostruito Las Vegas in studio, in un collage di spazi che davano un'impressione d'insieme. Un regista interpreta, tramite strutture preesistenti (come possono essere le città) o simboli (parti, ricostruzioni, frammenti).

Mario Botta: Ci sono "affinità elettive" che ci legano! È molto importante da parte sua aver sottolineato il bisogno di conoscenza per un'integrazione delle arti. L'unico modo per noi, vecchi europei, di contrapporsi ad altri modelli di città è quello di avere una coscienza critica. Il modello europeo di città supera quello americano e asiatico perché si nutre di questa cultura, di questa energia. Lei ha citato Goethe, io potrei aggiungere Klee, che ha cercato comunque fondamenti, ragioni, non scorciatoie artistiche.
C'è qualcosa oggi nel meccanismo della città che si è interrotto: il più povero dei centri storici (che costituisce uno spazio di comunicazione) è più bello della migliore metropoli contemporanea. Il centro storico ha un nucleo e un limite, e la storia di tutte le città si legge così, dalla periferia al centro, in un percorso che è anche nel tempo, verso il cuore medievale. Oggi viviamo in un continuo disagio anche perché non riconosciamo più il nostro habitat.

Vittorio Storaro: L'inquinamento luminoso è uno dei drammi di oggi, perché la luce non viene utilizzata per la decodifica e la conoscenza delle forme.

Mario Botta: Questo perché la luce è legata a uno sfacciato commercio, alla pubblicità, e toglie le ragioni della penombra, della scoperta.

Vittorio Storaro: Per quanto riguarda il cinema orientale, dal punto di vista dei colori non ci sono grandi differenze con il cinema occidentale: i significati sono sempre gli stessi di base, perché si parla sempre di energia visibile, perché la lunghezza d'onda della luce è la stessa e si riflette allo stesso modo. È a questo che ho pensato quando ho fatto L'ultimo imperatore.