Recensione La cura del gorilla (2005)

Azzeccato ritorno sullo schermo di Claudio Bisio, che insieme ad un intraprendente esordio di Sigon alla regia e alla straordinaria (in tutti i sensi) partecipazione di Ernest Borgnine, confeziona uno spaghetti-noir incisivo e gradevole

Spaghetti-noir

Dopo sette anni Claudio Bisio torna al cinema e, al contrario di qualche aspettativa poco rosea, stupisce. Si inserisce in un progetto di noir all'italiana ("spaghetti-noir" lo definisce il regista) che sorprende per fattezze estetiche e singolarità di sguardo sulla materia-cinema.
Il film, per alcuni versi, "è" di Bisio. Nel senso che è lui ad essere affascinato dall'omonimo romanzo di Sandrone Dazieri, è lui a proporlo alla produzione e a coinvolgere Sigon, conosciuto in numerose esperienze televisive comuni, nel progetto. L'idea si rivela vincente, puntando non al classico target familiar-buonista, ma costruendo una storia solida e rigorosamente definita, che può camminare benissimo sulle sue gambe senza ammiccare eccessivamente alla compiacenza del pubblico pagante. Il coinvolgimento di un'attrice che riempie lo schermo come Stefania Rocca, e l'ottimo cameo di Bebo Storti, in un ruolo per lui serioso ed inusuale, completano lo schema base di un film che sembra rifarsi molto al cinema di Infascelli, con una fotografia sporca, colori plumbei e saturati, situazioni da thriller metropolitano estrapolate da una provincia che rimane esclusa dalle cronache dei giornali, inaccessibile alle telecamere dei (falsi) programmi-verità delle televisioni generaliste.

Una regia, ma soprattutto, appunto, una fotografia se vogliamo del tutto fuori dalla norma per un prodotto del genere, costruite con accortezza e assolutamente funzionali fanno il resto. Non ci si deve aspettare, dunque, il classico prodotto per famiglie, come la presenza di Bisio e la locandina un po' anonima suggerirebbero.
La pellicola è un noir a tutti gli effetti, con la cifra inusuale e sorniona dell'ironia e del sarcasmo di Bisio e di Storti (memorabili alcuni scambi di battute) ma con un certo sano realismo affatto mitigato o eliso nella dinamica delle immagini. Una su tutte la scena iniziale, con il protagonista insolitamente alle prese con un assassino, sporco di terra e incrostato di sangue, come anche la descrizione visiva dell'appartamento dello stesso Sandrone (questo il nome di Bisio nel film, che poi corrisponde a quello dell'autore del romanzo), che ricorda, per abbandono e sporcizia, le scenografie del tanto acclamato Trainspotting, o del film-cult di Aronovsky, Requiem for a dream.

Ad introdurre, in modo del tutto spontaneo ed esilarante, una certa dose di sano divertimento, è la straordinaria (in tutti i sensi) partecipazione di Ernest Borgnine al film. Partecipazione che si declina in un personaggio di un vecchio attore di western, ormai in fase di assoluto declino, con il vizietto dell'alcol e destinato a comparsate da fenomeno da baraccone in feste di quart'ordine. Interpretazione assolutamente divertita e splendidamente autoironica, recitata in presa diretta inn un italiano stentato e simpaticissimo, che da solo vale il prezzo del biglietto. Un Borgnine la cui presenza, e il cui duettare con Bisio, reggono per metà il film, in un'esplosività di comicità (volontaria e non) che sugli schermi italiani non si vedeva da tempo. E a ripensare a cult come Il mucchio selvaggio o Un gioco estremamente pericoloso, vien da sorridere e rallegrarsi che un attore di tale spessore si prenda in giro con una voglia e un brio così sinceri e genuini.

Una pellicola che va sicuramente oltre le aspettative e, pur non essendo un capolavoro né una rivelazione assoluta, è un ottimo riferimento per il cinema italiano. Un "prendersi-sul-serio-ma-non-troppo" che da sempre caratterizza lavori di un certo spessore e di una certa fruibilità, e che si solleva sulla (purtroppo bassa) media qualitativa del cinema italiano odierno.