Recensione Syndromes And A Century (2006)

Un loop spiazzante, voluto e cercato per fornire sostanza a un racconto d'amore che si dipana vorticosamente su molteplici di piani, fino ad un incredibile finale.

Sindrome d'avanguardia

Se esiste al giorno d'oggi un cinema di avanguardia non ci si stupisca più di tanto che questo arrivi dalla Tailandia e che porti la firma di Apichatpong Weerasethakul. L'autore di Tropical Malady, prosegue lungo la sua strada, non curante di niente e di nessuno e ci sbatte ancora in faccia una storia che attraversa il cinema, lo urta e lo supera sospesa com'è in aria, come in una bolla metafisica.

Criptico, ipnotico e denso di simboli di ardua codifica, ma allo stesso tempo suggestivo quanto innegabilmente estenuante, Syndromes And A Century entra nel concorso di Venezia 2006 come potenziale storia di amore a cavallo tra passato e moderno tailandese. Ma l'amore nel film più che un fatto narrativo e un elemento sul quale Weerasenthakul si interroga affondando la sua analisi nel biografico e oltre il visibile e l'intellegibile. Vengono così narrate due storie d'incontri sovrapponibili: una ambientata nel passato, dove un giovane molto timido cerca di conquistare una dottoressa innamorata di un altro e un'altra nel contemporaneo, legata alle difficoltà quotidiane di un medico.

E' difficile entrare nelle trame dispiegate senza timore dal regista tailandese, seguirne gli sviluppi senza moti di agitazione o ribollimenti del pensiero. E a volte ci si chiede pure se sia giusto impegnarsi tanto. Domanda lecita, forse necessaria, atta a rifiutare un pregiudiziale osannamento, dannoso quanto l'equivalente rifiuto. In fondo potremmo anche non essere pronti per il cinema di Weerasenthakul. Pace.

Eppure quel che si coglie scuote e non permette la noncuranza. All'interno del composito flusso di immagini messo in scena, si snoda un racconto di notevole potenza e di grande consapevolezza, capace di fornire coerenza a un tessuto narrativo volutamente scoordinato. Non sorprende quindi l'uso che Weerasenthakul fa della grammatica filmica, dove ogni movimento della macchina da presa va a situarsi in corrispondenza di ogni snodo concettuale. Liberandosi dalla fissità di ciò che lo precede il regista tailandese riesce così, con un carrello, se non con un semplice restringimento della lente ottica, a fornire un valore cinematografico di densità quasi primordiale. Il risultato è un loop spiazzante, voluto e cercato per fornire sostanza a un racconto d'amore che si dipana vorticosamente su molteplici di piani, fino ad un incredibile finale.
Cinema per pochi, pochissimi, forse nessuno.