Sergio Leone: il sognatore che ha reinventato il West

Il 30 aprile del 1989 moriva il grande regista di Per un pugno di dollari e Il buono, il brutto e il cattivo. Vent'anni dopo non possiamo che celebrare i suoi lavori che hanno cambiato per sempre la settima arte.

Si moltiplicano le iniziative per ricordare Sergio Leone in concomitanza col ventesimo anniversario della sua morte. Il più americano dei registi italiani, o per essere più precisi, l'uomo che è stato capace di reinventare ex novo un genere rigido e codificato come il western succedendo al padre padrone John Ford e influenzando profondamente con i suoi spaghetti-western il cinema americano moderno, ha lasciato un'impronta indelebile nella storia della settima arte. Basti pensare che senza Leone forse non ci sarebbe stato un Clint Eastwood, nato come attore di B-movie, scelto grazie al suo cipiglio da duro per partecipare alla celeberrima 'Trilogia del dollaro' e oggi idolatrato come l'ultimo dei registi classici, uno di quelli che non sbaglia un colpo e che, come il buon vino, invecchiando diventa più saggio e raffinato. E' stato Eastwood stesso, durante la cerimonia degli Academy Awards del 1993 in cui è stato premiato con la celebre statuetta per la miglior regia per lo splendido Gli spietati, a riconoscersi pubblicamente debitore nei confronti dei suoi due maestri: Don Siegel, coriaceo regista di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo e, per l'appunto, Sergio Leone.

una foto di Sergio Leone
una foto di Sergio Leone

Il creatore di capolavori come Per un pugno di dollari o C'era una volta in America nasce come artigiano della vecchia guardia formatosi con una lunghissima gavetta sui set di peplum, adventure movies e operette liriche. Il padre, Roberto Roberti, è uno dei pionieri dell'industria cinematografica italiana ai tempi del muto. La madre, Bice Waleran, è un'affascinante attrice. Con un DNA come questo è quasi impossibile ipotizzare un futuro diverso da quello che attende il giovane Sergio, cresciuto a pane e cinema nei meandri di Cinecittà.

Un italiano alla conquista del Western

Regista, sceneggiatore, produttore, sporadicamente attore, Sergio Leone passa con nonchalance da assistente alla regista (non accreditato) di Vittorio De Sica in Ladri di biciclette a co-autore di ruspanti spaghetti-western quali Un genio due compari un pollo o Il mio nome è Nessuno, che vedono in azione l'icona Terence Hill. Umile e geniale, attinge alla linfa vitale del cinema collaborando con Mervin LeRoy in Quo Vadis?, con William Wyler in Ben Hur e con Robert Aldrich in Sodoma e Gomorra. Fa tesoro della lezione importando la grandeur hollywoodiana nell'industria nostrana e realizzando pellicole di ampio respiro immerse in spazi immensi e lunghi silenzi, apprende la dimensione dello spettacolo per lo spettacolo innestando nell'epopea del mito moderno per eccellenza, quello del selvaggio West, una ferocia e un cinismo tutti italiani. Sebbene la passione lo porti a muovere i primi passi in un universo, quello del western, tipicamente americano (da qui la volontà di esordire con uno pseudonimo - Bob Robertson - che è un omaggio al nome del genitore), Leone non rinuncia mai alla sua italianità né nello stile né nel pensiero. Ancor più di quanto è accaduto a Dario Argento con i suoi thriller anni '70, amatissimi e fondamentali per svecchiare l'horror internazionale, Leone è un regista capace di confrontarsi con un genere nato negli Stati Uniti e immediatamente caratterizzatosi per stilemi rigidissimi trasponendolo in un universo concettuale altro senza per questo privarlo dei suoi elementi fondanti. Gli immensi deserti della frontiera americana (ricostruiti spesso e volentieri nelle più abbordabili location spagnole o a Cinecittà) diventano teatro di una crudeltà più sottile, interiore, e allo stesso tempo universale. All'epopea del grandi spazi valorizzati dai campi lunghissimi di John Ford, si sostituiscono gli infiniti primi piani sui volti rugosi e sugli occhi di ghiaccio del protagonisti del cinema di Leone, sottolineati dalle musiche immortali di Ennio Morricone che col regista stabilisce presto un felice sodalizio che lo porterà a comporre alcune tra le melodie più celebri della storia del cinema.

Eastwood e gli altri, i suoi antieroi tra luci e ombre

Il western di Sergio Leone è caratterizzato da un sostanziale sincretismo che fonde, appunto, epopea americana, arguzia e genialità italiana, attingendo di volta in volta temi e soggetti da universi spettacolari altri che colpiscono la fantasia del maestro romano. A ispirare il primo grande successo di Leone, l'epico Per un pugno di dollari, è la visione dello straordinario La sfida del samurai di Akira Kurosawa di cui Leone si invaghisce immediatamente decidendo di realizzarne una versione western che si distacca dall'originale principalmente per le originalissime scelte registiche, il tutto pur senza possedere i diritti di remake. La battaglia legale che ne seguirà frutterà un bel gruzzolo a Kurosawa che si assicura i diritti di distribuzione della pellicola in Giappone e il 15% degli incassi mondiali. Il maestro giapponese vede lontano. Per un pugno di dollari riscuote, infatti, un immenso successo trasformando un attore di serie tv a buon mercato magro e semisconosciuto, il giovanissimo Clint Eastwood, nell'icona del duro per eccellenza e Clint lo ricompenserà interpretando i successivi Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo (che vanno a comporre l'epica 'Trilogia del dollaro'). All'eroe senza macchia e senza paura incarnato dai volti puliti del cinema americano di James Stewart o John Wayne Leone preferisce antieroi caratterizzati da luci e ombre o cattivi a tutto tondo. Ecco che oltre al giovane Eastwood armato di poncho, pistola e sguardo glaciale, fanno la loro comparsa le facce torve e stropicciate di Eli Wallach, Lee Van Cliff, Gian Maria Volontè i quali si fanno interpreti di un universo western barocco, privo di donne e carico di sangue e violenza, che gioca sulla costruzione della tensione e sulla spettacolarità dei duelli, risolti da brillanti soluzioni registiche (si pensi all'eccezionale triello che conclude Il buono, il brutto e il cattivo). Come spiega lo stesso Leone "ho imparato a mettermi nei panni dello spettatore più esigente. Quando vado al cinema, spesso mi sento frustrato perché sono in grado di indovinare esattamente cosa succederà dieci minuti dopo. Così, quando lavoro a un soggetto, cerco sempre l'elemento della sorpresa. Lavoro duro per tener desta la curiosità della gente... Alla prima visione, il pubblico subisce l'aggressione delle immagini. Gli piace quello che vede, senza necessariamente capire tutto. Solo alla seconda visione coglieranno in modo più completo il discorso che sta sotto le immagini".

C'era una volta

La maniacale precisione registica e la ricerca di una dimensione epica assoluta sono alla base dei due grandi capolavori di Leone: il fondamentale C'era una volta il West e il gangster movie C'era una volta in America, opera immane che ha alle spalle un concept di più di dieci anni e una lunghissima lavorazione dove lo stile impetuoso del regista si fa ancora più denso, raggiungendo livelli di perfezione quasi assoluta in un amalgama di immagini significanti e uso della colonna sonora che hanno un impatto deflagrante sullo spettatore. Pellicola eccezionale e mozzafiato, purtroppo martirizzata dai tagli dei produttori a causa della sua eccessiva lunghezza, capace però di conservare comunque la forza e l'importanza che Leone è stato capace di imprimerle tratteggiando personaggi dall'assoluto fascino come i gangster interpretati da Robert De Niro e James Woods. Dall'epopea del West si passa ora a quella della fondazione degli Stati Uniti in toto. La fase americana di Leone si caratterizza per una maggiore disponibilità di mezzi e per una purezza stilistica assoluta. L'imponente inno funebre a un'epoca che si chiude (simboleggiata magnificamente dall'arrivo della ferrovia in C'era una volta il West) si prolunga nel nuovo mito fondante, quello della malavita e dei nemici pubblici che proliferano negli anni del proibizionismo stravolgendo il volto del paese. C'era una volta in America rappresenta, purtroppo, anche il canto del cigno di Leone, il suo testamento artistico. Il regista scompare, infatti, cinque anni dopo, nel 1989, in seguito a un attacco cardiaco mentre è impegnato nella preparazione di un kolossal storico sulla battaglia di Leningrado.
Leone ci lascia in eredità un pugno di opere e un esempio immenso, quella di un artista capace di fare del tessuto cinematografico l'essenza stessa della vita, di assolutizzare la dimensione spettacolare eternandola nei suoi scambi di sguardi, nei suoi campi e controcampi, nei montaggi parossistici e nei silenzi infiniti che hanno cambiato per sempre il destino della settima arte.