Recensione Sanguepazzo (2008)

L'interesse storico del regista italiano si arricchisce della dimensione metacinematografica per raccontare le figure di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, coppia nella vita e star del cinema dei 'telefoni bianchi'.

Sangue bianco

Torna ancora a Cannes Marco Tullio Giordana. Ancora una volta con un racconto in costume ambientato in un momento fondamentale del nostro Paese, come il passaggio dal fascismo alla democrazia. La fine di un'idea di società che è anche la fine di un modo di rappresentarla cinematograficamente. Dopo un lunghissimo percorso iniziato con Maledetti vi amerò e concluso da La meglio gioventù, l'interesse storico del regista italiano si arricchisce della dimensione metacinematografica per raccontare le figure di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, coppia nella vita e star del cinema dei "telefoni bianchi", celebri tra gli anni Trenta e Quaranta. Seguendo una struttura circolare, su cui si intagliano due piani temporali, il film segue l'ascesa e la caduta dei due divi che verranno fucilati il 29 aprile 1945 dai partigiani con l'accusa di collaborazionismo. All'interno le vicende italiane del periodo e gli eccessi di Valenti, in un melodramma che si alimenta soprattutto del triangolo amoroso che include oltre i due divi, il regista Golfiero, un aristocratico antifascista e omosessuale al quale la Ferida sarà sempre legata. Un personaggio che ricorda vagamente la figura di Visconti e a cui il film affida un ideale approdo morale.

Perde colpi e forza il cinema di Marco Tullio Giordana, giunto qualche anno fa alla sua espressione più matura con La meglio gioventù, che in tutti i suoi limiti riusciva comunque a coniugare il pubblico e il privato con dei momenti di buon cinema-televisione. A discapito di un titolo sanguigno, invece, Sangue pazzo è quanto di meno passionale si possa immaginare. Ingessato in una forma televisiva, privo di qualsiasi picco di intensità e deficitario nelle prove attoriali, ha dalla sua un'onesta solidità narrativa che gli permette di non annoiare mai particolarmente lo spettatore. Ma neanche di rendere avvincente quanto si sta raccontando.
Un film cerebrale e senza guizzi, tra finzione, realismo e repertorio, sempre prevedibile nelle scelte narrative e sempre impegnato a equilibrare il suo discorso. Tenendo a dovuta distanza qualsiasi tentazione agiografica nei confronti dei divi e non dimenticando mai un sano revisionismo del movimento partigiano, affidato ai due minuti di presenza di Luigi Lo Cascio. Che appare d'improvviso sullo schermo, nel suo ruolo più tipico, tanto che ci sembra che la sua ombra aleggi per tutto lo svolgimento delle vicende.