Recensione Pasolini prossimo nostro (2006)

Poco più di un'ora per comporre un puzzle densissimo, ricco di tantissime foto sul set e di un'intervista fiume al regista che si trasforma progressivamente in un violentissimo attacco alla società capitalista e ai suoi strumenti di dominio culturale.

Salò dopo Pasolini

Si è detto molto dell'uomo e del regista Pier Paolo Pasolini, soprattutto nell'ultimo anno, per il trentennale della sua morte. Molto, ma mai troppo perchè Pasolini era intellettuale complesso, sfaccettato e impenetrabile, che trovò nel cinema - molto più che nella saggistica, a parere di chi scrive - la forma più adatta per esprimere la propria weltanschaung. Concezione giunta nel periodo del suo ultimo Salò o le 120 giornate di Sodoma a un livello di amarezza e disillusione apocalittiche, ma probabilmente politicamente più lucida della sua fase più spiccatamente terzomondista. La RIPLEY'S FILM si getta, grazie al supporto di Cinemazero, sul mercato theatrical, producendo il documentario attraverso il quale Giuseppe Bertolucci racconta Salò fino all'assassinio di Pasolini, quando il film era ancora in montaggio.

Poco più di un ora per comporre un puzzle densissimo, ricco di tantissime foto sul set, pezzi di film e soprattutto di un'intervista fiume al regista (cinquanta ore di registrazione audio a cura di Gideon Bachmann) che si trasforma progressivamente in un violentissimo attacco alla società capitalista e ai suoi strumenti di dominio culturale. Gli argomenti affrontati sono molteplici: dalla chiarificazione dell'invettiva politica insita nel suo film, alle contraddizioni della società italiana, dalle metodologie di falsa contestazione del potere, alla perdita di ogni tipo di speranza per il futuro ("Io non spero. Non bisogna sperare, la speranza è una cosa orribile creata dai partiti per avere meglio il controllo sui propri elettori") di un uomo capace di affrontare con estrema criticità e onestà intellettuale i percorsi del suo pensiero, finendo per tracciare un quadro nero della società a lui contemporanea e di quella a venire. Un quadro che risente indubbiamente di un'impostazione eccessivamente intellettualistica dell'evoluzione socio-culturale, alla ricerca quindi di chi e come possa modificare di fatto la sostanza delle cose, piuttosto di quali debbano essere le condizioni materiali per il cambiamento. Eppure, nonostante quest'idea del dominio culturale eccessivamente marcusiana, l'immagine che Pasolini delinea della società attuale nel 1975 è tragicamente veritiera, almeno nelle manifestazioni più evidenti.

Per questo Salò è film di imbarazzante attualità che esplicita in primis attraverso la metafora masochista il problema della mercificazione del corpo. In questo il regista è chiarissimo quando sostiene: "Nel mio film c'è molto sesso, ma questo sesso ha una funzione molto precisa: quella di rappresentare cosa fa il potere del corpo umano: l'annullamento della personalità degli altri, dell'altro. Il sesso è la metafora del rapporto tra potere e coloro che ad esso sono sottoposti. Là dove tutto è proibito si ha la possibilità reale di fare tutto, dove è permesso solo qualcosa si può fare solo quel qualcosa.". Nella chiarezza e nella lucidità in cui emerge il pensiero di Pasolini sta la bontà del documentario di Giuseppe Bertolucci che sceglie di mettersi da parte, forse consapevole che altrimenti non avrebbe aggiunto nulla di nuovo sull'argomento. E a emergere è un Pasolini rabbioso ma, giova ancora ribadirlo, in un modo complesso e problematico.