Rotterdam 2006

L'IFFR (International Film Festival Rotterdam) è turbinoso, è graticolare, è a domino infinito. Il catalogo ha quasi 500 pagine, i film ??" tra corti e lunghi e video e documentari e retrospettive e omaggi - sono centinaia, le repliche, per fortuna, si sommano a loop.

L'IFFR (International Film Festival Rotterdam) è turbinoso, è graticolare, è a domino infinito. Il catalogo ha quasi 500 pagine, i film - tra corti e lunghi e video e documentari e retrospettive e omaggi - sono centinaia, le repliche, per fortuna, si sommano a loop. Il festival di Rotterdam è, assieme al Sundance, il primissimo dell'anno solare: ci si raduna tutti a vedere le cose nuove. Per i ritardatari, poi, la possibilità di recuperare il perso dell'anno precedente è inevitabile. Dalle nove a mezzanotte, orario continuato; non si può vedere tutto, ma si può vedere molto.

Quella del 2006 è stata un'edizione da mandare a memoria. Mai il concorso - il cui vincitore si porta a casa il Tiger Award - è stato così compatto, mediamente buono, financo sorprendente. Ai premi hanno trionfato il brutto Walking on the Wild Side del cinese Han Jie, l'uruguayano La perrera/The Dog Pound di Manuel Nieto Zas e il magnifico Old Joy della statunitense Kelly Reichardt. Passeggiata silenziosa di due amici tra le montagne dell'Oregon, Old Joy, come il Gerry di Gus Van Sant, sbanda tra gli animi e le sensibilità (politiche) di un paese che, secondo le parole della stessa regista, non ha più coordinate. E al pari di un oscillografo, tenta di fermare gli elementi del tempo per osservare e capire: ma il dolore interno è troppo, e si finisce per perdersi. Un film che è un brano folk-country, con Will Oldham (aka Bonnie 'Prince' Billy) e la musica di Yo La Tengo, giustappunto. Ottimi, in concorso, anche Langer licht/Northernt Ligh dell'olandese David Lammers, storia piana della relazione tra un padre macho tradizionalista e un figlio adolescente in fiore, e Glue (historia adolescente en medio de la nada) dell'argentino Alexis dos Santos, sguardo appassionato sulla vita di alcuni ragazzi, talmente vero e condivisibile da travolgere ogni difesa spettatoriale (non capita così invece con Un jour d'été del francese Franck Guérin, altra vicenda adolescenziale, tra lutti e inquietudini sessuali, ma molto meno convincente).

In giro per le varie sezioni del festival, poi, succede di incontrare il sublime terzo capitolo della trilogia Pusher del danese Nicolas Winding Refn, I'm the Angel of Death: Pusher3, che conclude un conglomerato noir da far vedere nelle scuole di cinema, finissimo esempio di scrittura e di suspense narrativa, sguardo lucido su una contemporaneità multietnica che implode, spandendo sangue ovunque; Refn è un grande regista, e da noi nessuno sa chi sia. Oppure Dein Herz in meinem Hirn/Your Heart in My Brain del tedesco Rosa von Praunheim, dramma in interni a due personaggi/attori che si sbranano come nella vicenda cannibale di Rothenburger del 2001, con un'ironia secchissima e una lucidità che lascia il più delle volte senza parole. O ancora l'inglese The Living and the Dead di Simon Rumley, follia ereditaria che è circolo vizioso e assassino, tutto chiuso in una gigantesca villa sperduta nella campagna, con una delle scene più insostenibili del cinema recente.

Capolavoro il giapponese It's Only Talk di Hiroki Ryuichi, il più bel ritratto di donna che si sia visto negli ultimi tempi. Delusione atroce il nuovissimo Jan Svankmajer, Sílení/Lunacy, pessimo surreale tra De Sade e Poe, muffa e odore di stantio. Lo zenith della bruttezza è stato però raggiunto da Tideland di Terry Gilliam, che continua a essere uno dei cineasti più sopravvalutati del mondo.